Sedetevi a fianco a loro, magari in un pub, e ascoltateli parlare. “Faccio questa ricerca su Internet e ti rispondo”, dice un giovane. Non sta cercando davvero “su Internet”. Sta semplicemente usando i potenti mezzi di Google, poco consapevole che quel motore di ricerca è solo un tramite verso le informazioni, non la verità ultima in sé. Ascoltate tutti quegli adolescenti – e, perché no, bambini delle elementari – che possiedono uno smartphone e a un sondaggio d’opinione sosterrebbero di essere heavy consumer di “Internet”. Anche se, in realtà, non hanno mai messo il naso fuori da Facebook, WhtsApp e Shazam. “Fidati, l’ho letto su Facebook”, dice un altro ragazzo. Brividi.

Per le nuove generazioni – ma anche per la parte meno alfabetizzata della popolazione internauta – Facebook e Google rappresentano l’unico vero ponte verso la società dell’informazione. Non per caso, ai loro algoritmi è demandato il vecchio lavoro di gatekeeping (selezione e gerarchizzazione delle notizie) che una volta spettava alla sensibilità professionale dei giornalisti. E il mercato dell’informazione? Mai stato così in crisi, nonostante il ponte che dovrebbe portare le persone in casa dei giornali: le homepage dei quotidiani si svuotano, i News Feed si riempiono. A ben vedere, il giornalismo ha poco di che ringraziare Facebook e Google.

Tendiamo a esultare perché “i giornali non hanno mai avuto tanti lettori quanti oggi”. Ci scordiamo di aggiungere che né i nuovi lettori guadagnati in rete né l’advertising online stanno sopperendo in alcun modo alle perdite delle edizioni cartacee. E che per vedere una luce in fondo al tunnel, persino autorevoli colossi editoriali come il Washington Post si sono venduti a persone che sanno molto di digitale e nulla di giornalismo (leggi: Jeff Bezos).

Ci raccontiamo la favola che il giornalismo ce la farà, perché ce l’ha sempre fatta. Ma guardiamole davvero queste redazioni 2.0. Modelli caotici di business digitale; gattini sui social network per gonfiare in modo disperato i numeri delle interazioni; redattori di 60 anni che rifiutano di imparare cosa sia la scrittura Seo-oriented: “Perché io voglio scrivere per il lettore, non per Google”. E provate a dargli torto.

Potrebbe essere giunto il momento di ammettere che il giornalismo sta perdendo la sua sfida con Internet. Il sospetto è che Internet non abbia giocato correttamente. E qui entriamo nel vivo della riflessione.

I due imperi  digitali, Facebook e Google, hanno fatto da portabandiera per la cultura free della Silicon Valley. E indovinate chi sta cogliendo i frutti di una forma mentis che promuove la libera e gratuita circolazione delle informazioni? Ovviamente l’algoritmo di Google, che si autoalimenta e si affina al crescere del caos informativo. E ovviamente Facebook, che al crescere dei dati perfeziona il grafo sociale per poi segmentarlo e rivenderlo agli investitori pubblicitari.

Ma quanto ci costano Facebook e Google? Tecnicamente zero. “È gratis e lo sarà sempre”, recita il vangelo secondo Zuckerberg. E in tempi di recessione economica, qualcosa di gratuito è sempre ben accetto. Le piattaforme diventano così di massa e ci costringono ad un continuo aggiornamento: per farci una cultura e avere le ultime news in fatto di tecnologia seguiamo riviste specializzate come WiredThe Next Web e Tecnoyouth. Oppure cerchiamo commenti più tecnici, offerti da blogger di rilievo. Leggiamo molto di tecnologia. Eppure non la capiamo, non ne percepiamo gli effetti diretti su alcuni reparti della società. Arte, musica, giornalismo.

Abbiamo finto che la libera circolazione delle informazioni fosse un bene a priori per i lettori, dimenticando che dietro una vera notizia ci dovrebbe essere una persona qualificata e che quella persona meriterebbe, come dire, una retribuzione. Abbiamo insegnato ai più giovani il falso mito per cui l’informazione è come l’aria. Perché è data, è naturale e troverebbe la sua realizzazione nel semplice fatto di poter essere “cercata” sui motori di ricerca e di poter essere “condivisa” sui social network. Perché se è gratis, male non può fare. Forse.

Leggiamo a intervalli regolari le battaglie delle associazioni editoriali di questo o quel Paese contro Google News, con il portavoce di turno che viene spedito da Mountain View solo per argomentare a reti unificate: “Ehi, vi diamo traffico gratis. Ringraziateci, piuttosto”. E gli editori tornano a casa frustrati, perché si illudevano di poter vincere contro la tecnologia di un’azienda. Mentre i riflettori si spengono, perché stanno perdendo in partenza contro la cultura diffusa da questi imperi digitali. Una cultura che sta togliendo più posti di lavoro di quanti ne ha creati, prendiamone atto.

News Feed e Search Engine Results Page stanno togliendo centralità ai giornali.  La cultura free sta togliendo dignità alla notizia come bene che meriterebbe di essere finanziato. Oltreoceano ci raccontano di paradossi come quello per cui Google sarebbe considerato una fonte di informazione più credibile dei risultati che aggrega. Ma come suggerisce Jaron Lanier, inventore della realtà virtuale, oltre a puntare il dito contro l’editoria in crisi «nessuno di noi ha mai saputo dare ai dinosauri alcun suggerimento costruttivo su come sopravvivere”.

È davvero tutto gratis, come ci dicono Facebook e Google? A giudicare dalla riflessione sulla cultura free qui proposta e dal clima di tensione che si respira nelle redazione giornalistiche di tutto il mondo – tra tagli, chiusure e licenziamenti – la sensazione è che i singoli consumatori fruiscano, sì, gratuitamente del servizio. Ma che la società nel suo complesso stia già pagando, in dei modi che spesso non ci è dato vedere.

L’illusione promossa dalla Silicon Valley del tutto-gratis sta per terminare, il risveglio dal sogno della cultura free è alle porte. E quando accadrà, potremo solo pregare di essere dal lato giusto dello schermo.

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