In tempi di grande turbolenza dei mercati e di crolli dei prezzi delle materie prime, ecco che torna di estrema attualità il rapporto diffuso a fine novembre dalla Commissione d’inchiesta del Congresso Usa che punta il dito sui maggiori gruppi bancari statunitensi – Goldman Sachs, JP Morgan Chase e Morgan Stanley – che nel corso dell’ultimo lustro sono divenuti dominus di interi mercati delle materie prime arrivando a controllarne la produzione fisica, la trasformazione, il trasporto, lo stoccaggio, la vendita e la distribuzione. Lo hanno fatto attraverso una poderosa campagna acquisti, realizzando un’integrazione verticale tra banca, industria e società commerciali che – come sottolinea il rapporto – è causa di innumerevoli conflitti d’interesse, di gravi manipolazioni dei prezzi di mercato e del sistematico abuso di informazioni privilegiate da parte delle banche stesse.

Uno scandalo a metà, visto che la legislazione americana non vieta determinate pratiche sui mercati delle commodities. E infatti nel richiedere alla Fed e alle altre autorità di controllo i permessi per poter estendere la loro operatività nel settore della produzione fisica delle materie prime, i colossi della finanza hanno sottolineato con forza proprio i vantaggi e le sinergie che tale operatività porta al business finanziario in senso stretto. Jp Morgan lo ha scritto a chiare lettere alla Fed già nel 2005: “Questo posizionamento fornirà accesso a informazioni riguardanti l’intera gamma di prodotto e l’attività di mercato degli acquirenti finali. Informazioni che serviranno anche a migliorare la gestione dei rischi e le previsioni sull’andamento futuro del mercato e dei prezzi che Jp Morgan potrà utilizzare per migliorare la sua offerta di prodotti derivati sulle commodities”.

Una Commissione d’inchiesta del Congresso Usa ha rilevato conflitti di interesse e abusi di di informazioni privilegiate

Lo scandalo tuttavia c’è ed è quello di una regolamentazione troppo frastagliata e permissiva che non tutela gli operatori economici e l’industria di fronte all’arrivo di questi T-rex della finanza affamati di profitti a qualunque costo e sostanzialmente disinteressati alle conseguenze del loro agire. Proprio per questo Congresso e Federal Reserve stanno valutando l’introduzione di una regolamentazione più severa, sia per evitare distorsioni della concorrenza e manipolazioni dei prezzi sia, soprattutto, per contenere i nuovi rischi sistemici indotti dalla crescita dell’esposizione del sistema bancario sulle materie prime e dalla commistione tra banche, industria e commercio. La nuova regolamentazione però ancora non c’è e la Commissione d’inchiesta del Congresso evidenzia nel suo rapporto come Jp Morgan, Goldman Sachs e Morgan Stanley abbiano operato simultaneamente sul mercato finanziario e sul mercato fisico delle materie prime utilizzando gli stessi trader e gli stessi desk operativi – che si trovavano così ad avere un ingiusto vantaggio informativo rispetto agli altri trader presenti sul mercato.

Un sistema così profittevole che ha portato le grandi banche a espandere notevolmente la contrattazione fisica delle materie prime delle società controllate per massimizzare i guadagni del trading finanziario e dei derivati. Ad esempio Nufcor, uno dei maggiori produttori mondiali di uranio, una volta acquisito da Goldman Sachs ha incrementato di dieci volte il trading fisico di materia prima, passando da 1,3 a 13 milioni di libbre di uranio all’anno.

In alcuni casi, osserva la Commissione, il controllo della filiera delle materie prime è stato utilizzato per influenzare e persino manipolare i prezzi di mercato. E’ successo in California e nel Midwest, dove Jp Morgan ha utilizzato pratiche non consentite per alterare il prezzo d’asta dell’elettricità (e per questo ha dovuto pagare una multa da 410 milioni di dollari) ed è successo anche sul mercato dell’alluminio dove Goldman Sachs ha artificialmente ritardato i tempi di consegna dei prodotti per far salire i prezzi. Come? Con delle transazioni fittizie che semplicemente spostavano l’alluminio da un magazzino all’altro riducendo così la disponibilità della merce per i clienti finali. Per queste pratiche Goldman Sachs è stata citata in giudizio da più di una dozzina di clienti industriali. E ancora Jp Morgan ha lanciato un fondo di investimento ad hoc (in gergo Exchange traded fund, Etf) sul rame che secondo alcuni utilizzatori industriali che hanno sporto denuncia alla Sec (la Consob americana) avrebbe avuto l’effetto di creare artificialmente una contrazione della materia prima disponibile.

Fino a poco tempo fa Morgan Stanley aveva in deposito 55 milioni di barili di petrolio, possedeva 100 petroliere e 6mila miglia di oleodotti

Ma non basta, la Commissione d’inchiesta denuncia senza mezzi termini il sistematico abuso di informazioni privilegiate da parte di questi colossi finanziari che hanno utilizzato (e verosimilmente continuano a utilizzare) la loro posizione di preminenza nel settore fisico delle materie prime per accedere a informazioni riservate o comunque non pubblicamente disponibili per trarne vantaggio nell’attività di trading finanziario. “Le attività di Morgan Stanley nel trasporto e nello stoccaggio del petrolio – si legge nel rapporto – le davano accesso a informazioni sulla movimentazione della materia prima, sui tassi di saturazione dei depositi e degli oleodotti”, mentre oltre “50 dipendenti di Goldman Sachs erano a conoscenza dei livelli di stoccaggio dei magazzini alluminio, delle spedizioni in arrivo e in partenza e dell’eventuale cancellazione di warrant”.

Per chi pensasse che si tratti di fatti episodici magari di poco conto, vale la pena sottolineare i dati esposti dal rapporto: fino a poco tempo fa Morgan Stanley aveva in deposito oltre 55 milioni di barili di petrolio, possedeva 100 petroliere e 6mila miglia (circa 8.000 chilometri) di oleodotti. Jp Morgan è arrivata a controllare quasi il 60% della materia prima fisica disponibile sul primo mercato mondiale del rame, il London Metal Exchange, mentre nel 2012 Goldman Sachs possedeva 1,5 milioni di tonnellate cubiche di alluminio, l’equivalente del 25% del consumo annuale di alluminio degli Stati Uniti, mentre nel 2014 nei suoi magazzini era stivato l’85% dell’alluminio presente negli Usa, per non parlare dell’uranio.

I concorrenti si trovano a sopportare costi di finanziamento nettamente superiori a quelli dei gruppi controllati dalle big bank

Un potere enorme, insomma, con effetti distorsivi notevoli sul mercato. Basti pensare alla concorrenza di matrice non bancaria che si trova a sopportare costi di finanziamento nettamente superiori a quelli dei gruppi controllati dalle big bank statunitensi i quali oltretutto – avendo alle spalle dei colossi finanziari – possono permettersi di avere dei requisiti patrimoniali nettamente inferiori rispetto a quelli delle società puramente industriali. Nel 2012 – recita il rapporto – le aziende controllate dalle banche avevano in media un capital ratio compreso tra l’8 e il 10%, contro il 42% medio dell’industria volto a coprire le potenziali perdite. Ciò significa che i gruppi di matrice bancaria hanno a disposizione molti più fondi da investire nel business rispetto ai concorrenti. Ma vuol dire anche che in caso di perdite sono le controllanti (cioè Jp Morgan, Goldman Sachs e Morgan Stanley) a dover intervenire. E qui casca l’asino. Uno dei problemi è che le grandi banche Usa si sono buttate sul business delle materie prime senza disporre di adeguate coperture, determinando un rischio sistemico rilevante sia perché si tratta di alcune delle maggiori banche mondiali, sia perché le materie prime hanno una valenza strategica per le industrie e per i Paesi produttori.

Poiché l’obiettivo è la massimizzazione dei profitti, questi campioni della finanza operano sostanzialmente in un’ottica di breve periodo e – denuncia il rapporto della Commissione d’inchiesta – non sono interessati a dedicare il tempo e le risorse necessarie alla realizzazione di complessi (e pur necessari) investimenti infrastrutturali talvolta richiesti dalle stesse normative che regolano il settore. Ciò può accrescere il rischio di eventi catastrofici per le persone e per l’ambiente, rischio sottovalutato dalle banche che – si scopre – non sono adeguatamente coperte sotto il profilo patrimoniale e assicurativo per far fronte a una catastrofe tipo quella della Deep Water Horizon che con il greggio fuoriuscito ha inquinato gran parte del Golfo del Messico: “Nel peggior scenario possibile, la Federal Reserve e i contribuenti statunitensi potrebbero essere obbligati a intervenire a supporto delle banche per evitare guai peggiori”.

Le banche non sono adeguatamente coperte sotto il profilo assicurativo per far fronte a un’eventuale catastrofe come quella del Golfo del Messico

Ma in tempi di altissima volatilità, in cui il prezzo del petrolio crolla del 60% in pochi mesi e i prezzi di altre materie prime come il rame precipitano ai minimi storici, al rischio teorico di incidenti o catastrofi si aggiunge quello ben più concreto della possibilità di scoprirsi improvvisamente dalla parte sbagliata del tavolo e anziché fare indigestione di profitti, trovarsi ad accumulare perdite crescenti sul fronte dei derivati, con conseguenze potenzialmente devastanti non solo sulle primattrici della finanza, ma sull’intero sistema economico e finanziario. Speriamo che la crisi innescata dall’esplosione della bolla dei mutui subprime abbia insegnato qualcosa e che le autorità di vigilanza intervengano al più presto per recidere il nodo gordiano che oggi lega grandi banche e mercati fisici delle materie prime.

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