Con tutto quello che ci sarebbe da fare in Italia – anche limitandoci al solo ambito bancario –  il governo con un provvedimento urgente sotto forma di decreto ha deciso di spezzare le reni alle banche popolari, su consiglio patente di Francoforte e dei suoi advisors e  per la gioia di qualche fondo speculativo internazionale. Un “colpo di Stato”, come ha scritto Giulio Sapelli che la dice lunga sulla cultura istituzionale del governo. Come e meglio di uno sketch di Crozza, Renzi ha ritenuto che questa fosse la priorità e ha ordinato di costringere le maggiori banche popolari italiane a cessare la forma cooperativa e passare all’assetto di S.p.A.

Confermandoci (e non ne godiamo affatto!!) che questo governo delle grandissime intese – come nel caso anche della legge elettorale – è specialista soprattutto nel cambiare in peggio ciò che è già di suo sbagliato, in genere prendendosela con i più deboli e senza toglierci il fastidioso dubbio che ci sia qualche altra finalità indiretta, tipo il salvataggio dell’ex banca del Pd toscano.

Nel merito, mi pare che il provvedimento sulle banche popolari abbia realizzato il pessimo paretiano già delineato da Carlo Maria Cipolla in un suo splendido breve saggio, riuscendo a mettere insieme in un sol colpo il massimo dell’inutilità e della stupidità. Il massimo dell’inutilità perché di fatto le maggiori delle popolari già avevano assunto o si erano avviate sulla strada delle società per azioni, senza essere però obbligate a cedere quote importanti. Quello della stupidità, per il danno che sarà fatto ai cittadini, che perderanno un’importante forma di credito vicina alle loro esigenze e in ogni caso molto più «accountable» (come direbbero gli uomini della Bce) delle varie Deutsche Bank, Unicredit, Intesa etc. che quando devono prendere una decisione che riguardi un cliente non si sa mai a chi spetti, certamente a qualcuno molto lontano.

Il voto capitario che verrà abolito, consentiva di votare sulla base del semplice fatto di essere soci e non in proporzione al numero di azioni possedute. Tutti in teoria contavano allo stesso modo. Certo come tutte le forme democratiche non era perfetto e in molti casi aveva aiutato a pietrificare il gruppo di controllo delle banche popolari. Questo fatto, come è di tutta evidenza, era peraltro una conseguenza negativa del sistema, non una sua caratteristica intrinseca e ci diceva più dei problemi della democrazia popolare che di quelli delle banche. Inoltre, se si fosse voluto realmente risolvere questo problema di democrazia bancaria, si sarebbe potuto fare qualcos’altro, ad esempio, intervenendo sugli statuti delle banche popolari o sulla rinnovabilità delle cariche sociali.

Le banche popolari non erano certo il paradiso terrestre del credito, ma its hard to be a saint in the city. (Springsteen). In passato – è verissimo – alcuni gruppi e alcune banche avevano sfruttato questi aspetti potenzialmente deteriori della governance sia per esercitare una cattiva gestione delle banche stesse, sia per perseguire interessi di parte di piccoli gruppi dominanti. Ma poi in questo caso proprio il dio delle banche popolari le aveva giustamente punite, e i loro insuccessi erano coincisi con l’allontanamento dai principi popolari. Ma l’identità che alcuni hanno voluto porre tra cattiva gestione e banche popolari è una battuta da Bagaglino. Vogliamo parlare di come funziona la governance nelle banche tradizionali? In quale rispetto sono tenuti i clienti? Con quale considerazione i piccoli azionisti possono far sentire la propria voce? Con quali tutele e quali trasparenze viene esercitata l’attività di intermediazione bancaria e finanziaria in Italia? Vogliamo parlare di come ha lavorato a questo proposito la Banca d’Italia e la Consob nell’adempiere ai loro doveri di sorveglianza e controllo? Vogliamo parlare invece dei prodotti index linked venduti ai pensionati, oppure dei derivati piazzati a man bassa alle imprese e perfino agli enti pubblici? Oppure vorremmo soffermarci sulle fondazioni bancarie, sul loro ruolo, sulle loro governance pietrificate e sulla legislazione vigente che consente loro con denaro di fatto pubblico di perseguire, questa volta sì, fini di piccolissimi gruppi di potere e spesso addirittura individuali, salvo poi devastarne i patrimoni? Scusate, questi non sono problemi, il vero problema era quello delle banche popolari.

Ora qualcuno verrà in Italia entro i 18 mesi che il governo ha stabilito con il suo decreto, promulgato tra l’altro in un periodo di vacatio istituzionale, e si porterà a casa banche che nel bene e nel male fino ad oggi erano rimaste legate al territorio, alle piccole imprese. A quel punto l’intero sistema delle banche popolari e cooperative finirà, perché è chiaro che in assenza di soggetti relativamente grandi che adottino lo schema popolare sarà impossibile per i piccoli sopravvivere. Cest-à-dire che il progetto è molto più ampio ed è quello di trasformare tutto il sistema bancario italiano sul modello della Citibank, con il bello e il brutto che tutti conosciamo (“Too big too fail”), stravolgendo cento cinquanta anni di storia, distruggendo ciò che nemmeno le guerre mondiali, le grandi crisi e le derive totalitarie erano riuscite a distruggere.

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