Voler capire le ragioni dell’altro non significa giudicarle positive né volerle far proprie. Su questo punto credo di non essere stata sufficientemente chiara nel mio ultimo post, perché più d’un lettore lo ha interpretato come una dichiarazione di sostegno agli autori della strage di Parigi.

La mia domanda era (ed è): perché ci sono persone che in nome della propria religione diventano assassini e cercano oltre alla morte altrui anche la propria? Cosa hanno nella testa quando decidono di agire in quel modo? La risposta che molti danno “non è religione, è fanatismo” non mi convince, anzi mi sembra smentita dai fatti. Non tanto perché quegli uomini mentre sparavano gridavano “Allah Akbar”; quanto perché qualche giorno dopo le piazze di moltissimi paesi musulmani si sono riempite di folle che rivendicavano la propria fede, condannavano come offese inaccettabili alla religione le vignette di Charlie e esprimevano, sempre in nome della religione, una sorta di solidarietà più o meno implicita per i terroristi di Parigi. Niente da fare per noi occidentali: l’espediente di distinguere l’Islam moderato da quello cattivo, anzi di sostenere che quest’ultimo non è Islam, ma ‘solo’ terrorismo, non regge. Lo rifiutano loro. Il che non vuol dire che loro sono tutti uguali; vuol dire ‘solo’ che tutti loro collocano le stragi di Parigi all’interno di un orizzonte culturale religioso e dunque lo giudicano secondo valori religiosi, anche quelli fra loro che non approvano gli omicidi.

Manifestazioni contro Charlie Hebdo a Tehran

Ma noi abbiamo comunque bisogno di elaborare il nostro lutto: quei morti sono un po’ di ognuno di noi, ci appartengono, sono stati uccisi a causa di un modo di pensare e di agire (la libertà di stampa, il rifiuto dei tabù) che sono anche nostri. Abbiamo quindi rivendicato i morti di Charlie come vittime sacrificate dalla barbarie per la loro appartenenza a una civiltà superiore, laica, libertaria. E come idea poteva anche funzionare, ci consolava e ci dava coraggio, lo si è visto nella manifestazione di Parigi. Se non ci si fosse mezzo di mezzo il Papa. Il quale con la sua teoria del pugno da mollare all’offensore della sua mamma (la mamma è sempre la mamma), ha sostanzialmente giustificato le reazioni violente ad attacchi violenti in materia di religione; senza giustificare, ovviamente, gli omicidi, ha però ammesso che se ci toccano “le cose più sacre”, tutti, anche il Papa, abbiamo diritto di reagire con violenza. Ma come, i cristiani non sono costruttori di pace? Non debbono porgere l’altra guancia? Non debbono lasciare a Dio il giudizio e la punizione eventuale dei peccatori? Non debbono perdonare?

La battuta di Bergoglio pronunciata in un contesto informale, è stata da alcuni giustificata come un errore banale, da non prendere sul serio. Non sono d’accordo. Io l’ho presa sul serio e sono arrivata alla conclusione che non ci capisco niente.

Non bastando, ho letto anche, avanzata da un signore ebreo, l’interpretazione degli assassini del supermercato come un episodio di puro razzismo. I redattori di Charlie sono stati ammazzati per le vignette; i clienti del supermercato sarebbero stato ammazzati perché ebrei. Solo perché e in quanto ebrei. Il signore non lo diceva, ma insomma, stile Auschwitz.

Ma che gli fanno le religioni agli uomini?

E’ tutto tanto più assurdo perché giudaismo, cristianesimo e islam sono, come è noto, parenti stretti. Alle origini delle tre c’è la religione di Abramo, che si fonda sul Libro, cioè sull’Antico testamento, sulle rivelazioni dirette che Dio ha fatto a Mosè, ad Abramo stesso, ai patriarchi e ai profeti. Anche i contenuti sono comuni: non solo il monoteismo e l’organizzazione patriarcale e misogina della famiglia e della società, ma soprattutto la convinzione che Dio si è rivelato ai credenti che per questo e solo per questo diventano il popolo eletto. Gli ebrei attendono ancora il Messia, che porterà l’ultima e definitiva rivelazione di Dio; il cristianesimo e l’islam lo hanno già avuto nelle persone del Cristo e del Profeta. Tutto ciò è scritto nel Vangelo e nel Corano. Infine: cristianesimo e islam, poiché sanno che il Messia è venuto e per suo mezzo, Dio si è rivelato, si impegnano a diffondere la buona novella, a portare la parola di Dio a chi non ce l’ha; in una parola a convertire (con le buone o con le cattive). Ma senza pietà per gli infedeli, i miscredenti. E così facendo i credenti si guadagnano la vita eterna in un luogo meraviglioso detto Paradiso.

Qual è l’orizzonte di speranza, di orgoglio per una identità forte, di senso di appartenenza a una comunità grande e potente, che scaturisce dalla ‘fede’ in queste storie? E quale disperazione, quale senso di impotenza questa ‘fede’ deve compensare?

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