Caro Fedez,

ho letto il tuo post sulle pagine del Fatto e mi è sembrata una provocazione incompleta, zoppa sul passo più importante.

Ti ho ascoltato per la prima volta qualche anno fa, quando venivo a suonare al Centro Sociale Cantiere di Milano: alle serate c’era sempre questo Fedez a fare freestyle insieme agli altri o a far sentire le ultime rime che aveva scritto. Eri molto giovane, ma già tra i più forti del cypher; non avevo dubbi che ti saresti fatto strada, anche se mentirei se ti dicessi che mi aspettavo di vederti dove sei ora. Non condivido alcune delle tue scelte, ma non è questo il punto: ti auguro di vendere ancora più dischi, di fare più soldi, di essere più felice.

Mi fa piacere che utilizzi uno dei quotidiani più letti d’Italia per parlare di mafia, un argomento di cui molti ragazzi hanno probabilmente una conoscenza abbastanza limitata. Qualsiasi spunto che possa spingerli ad interessarsi e ad approfondire è ottimo, anche perché – come fai notare tu stesso – la mafia (o “le mafie”, come dicono più correttamente quelli che ne sanno) non è più un argomento “cool” ed oggi è più difficile parlarne rispetto all’epoca delle stragi e delle autostrade che saltavano in aria.

Il tuo ragionamento però sembra fermarsi qui. Mi sarei aspettato un “Sai che c’è? Da oggi provo io a far diventare la mafia un argomento cool. Ho milioni di ragazzi che mi ascoltano. Non mi fermo al post di Capodanno o a una punchline azzeccata nella prossima canzone, mi metto a lavorare insieme al movimento antimafia e vediamo se e quali risultati avrò raggiunto il 31 dicembre 2015 nell’aumentare la consapevolezza di chi mi ascolta”.

Non ho il tuo successo, ma di storie su come si contribuisce a combattere la mafia con il rap te ne potrei raccontare un paio. Ti potrei parlare di una serata annullata all’ultimo momento perché all’organizzatrice era stata recapitata una testa di capretto (penso non serva spiegare cosa simboleggia…), come potrei parlarti di quei cinque proiettili calibro 7,65 nella macchina di un ragazzo colpevole solo di fare musica. Potrei dirti che, proprio a Milano, in un quartiere periferico una volta vennero strappati tutti i manifesti di un concerto perché il gruppo che suonava venne definito “quelli delle arance insanguinate… gente che non ha rispetto”. Ripeto: a Milano, non a Reggio Calabria.

Potrei parlarti di chi fa un lavoro quotidiano contrapponendo il rap di lotta alle tristemente note “canzoni di malavita”, e come questo lavoro venga contrastato con minacce e intimidazioni. Potrei dirti di quando un altro concerto rap non si fece perché un combattente coraggioso e appassionato era appena morto su quel palco in riva al mare. Cosa c’entra la mafia in questo caso? Era una manifestazione contro il Ponte sullo Stretto di Messina, l’opera che significherebbe una cascata di soldi in tasca ai boss: in piazza c’erano qualcosa come 200 poliziotti e carabinieri, ma nemmeno un’ambulanza.

Potrei dirti anche mille storie belle, parlarti di un “No Alla ‘Ndrangheta” a lettere cubitali sulle mura di un castello, farti sorridere con un aneddoto di Giovanni Impastato su Peppino.

Chiudo invece con una domanda. L’immagine che accompagna il tuo post è un murale molto bello, conosci la sua storia? E’ il primo murale antimafia realizzato a Roma, ben prima che sui giornali si cominciasse a parlare di Mafia Capitale. Lo so bene perché ero lì sul palco mentre veniva dipinto. Non è polemica, non è una sfida, ma un invito a quel ragazzino che conobbi anni fa al Cantiere: per il 31 dicembre 2015, caro Fedez, ti auguro di avere molte storie come queste da raccontare.

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