COVER Un giornalista che non scrive e un fotografo che non fa fotografie: potrebbe essere un modo per definire la figura professionale del photo editor, che non chiarisce però cosa in effetti egli fa.
Stiamo parlando di chi è incaricato di visionare e scegliere le fotografie da pubblicare sui giornali, ma anche sui libri e sui siti d’informazione.
Un onnivoro che deve avere una enorme cultura visiva, sempre immerso nell’attualità ma con un piede nella storia, le antenne costantemente accese, capace di dialogare con i fotografi del mondo per incaricarli di coprire un servizio e di mediare contemporaneamente con le paturnie di un direttore e il budget azzerato dalla crisi.
Suoi motori sono curiosità, passione, e poi ancora curiosità e passione. Quasi un’ossessione, di quelle buone.

E’ un ruolo complicato, una guerra quotidiana zeppa di responsabilità, ma che può essere esaltante combattere: la “guerra” delle fotografie, del loro senso, della loro diffusione nei media con tutte le relative implicazioni, sul piano comunicativo, informativo, etico e sociale.
Inutile ribadire quale peso abbia la parte visiva nel contesto dell’editoria, ma il photo editor sembra essere, qualche volta, l’unico ad esserne pienamente consapevole, remando “in direzione ostinata e contraria” (per citare De André) rispetto ai piani alti, soprattutto da quando un giornale è stato ribattezzato “prodotto” da qualche manager che non capirà mai la splendida anomalia del mestiere di fare giornali.
Detto in altri termini: se le foto che vediamo pubblicate in Italia fossero sempre e fino in fondo il frutto della sensibilità dei nostri migliori photo editor, vedremmo di meglio e – qui sta la scommessa – il “prodotto” tornerebbe forse a respirare.
Ma, viceversa, purtroppo oggi le scelte fotografiche dipendono spesso, in misura variabile, anche dalla visione degli inserzionisti, del marketing, e dell’editore che editore non è.

Per liberare del tutto occhi e cuore, per giocare in campo neutro e godersi il massimo della libertà, per fare squadra, per dimostrare cosa si potrebbe fare se lasciati fare, i photo editor italiani (associati nel Grin, Gruppo Redattori Iconografici Nazionale) si sono inventati un premio annuale da attribuire a un progetto fotografico meritevole. Il premio, intitolato al primo photo editor italiano, Amilcare G. Ponchielli, scomparso prematuramente, consente al fotografo vincitore (essendo un premio in denaro) di completare un progetto, o di realizzarne una mostra, un libro…
Ti distrai un attimo, ed ecco che il premio Ponchielli, l’unico in Europa attribuito direttamente dai photo editor ai fotografi, arriva a compiere 10 anni.
Per celebrare degnamente questo traguardo, che emblematicamente casca proprio quando gli spazi editoriali per un valido utilizzo del fotogiornalismo sembrano toccare i minimi storici, arriva un bel volume (10 fotografi, 10 storie, 10 anni. Premio Ponchielli 2004-2014) che raccoglie interamente tutti i 10 progetti vincitori delle rispettive edizioni. Seguirà, a marzo, la relativa mostra fotografica.

Quella del photo editor è una professione d’incroci: egli è crocevia di storie, d’immagini, d’informazioni, di scelte, di passioni, di vittorie, di frustrazioni, di emozioni. E del fuoco incrociato in mezzo a cui spesso sta posizionato, in quel campo di battaglia che vede in trincea non più solo i fotografi di guerra come ai tempi di Bob Capa, ma il fotogiornalismo tutto.
I 10 anni del Premio Ponchielli, in questo senso, sono una battaglia vinta.
Chi vivrà vedrà – si dice in questi casi – ma chi vivrà vedrà solo se qualcuno ancora lo aiuterà a vedere.

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