Si era dato due anni di tempo per mettere da parte dei soldi e fare il grande salto. “Ho mangiato il fango. Ho lavorato come un disgraziato, elemosinando quello che mi spettava pur di andarmene dall’Italia”. Diego Zangirolami, 30 anni, architetto torinese, in mente ha il Cile. Lì c’è fermento, ci sono professionisti che stima, come Radic e Aravena. Prima però deve procurarsi il budget per il biglietto. Dopo la laurea nel 2011 manda 700 curriculum in giro per l’Europa.

“Mi ero fatto una casella di posta elettronica in inglese, un’altra in spagnolo, oltre a quella italiana”. Vuole fare la gavetta nello studio di un archistar. Scrive a Piano, Fuksas, Foster, Zucchi. Ma anche a decine di piccoli architetti. In pochi rispondono e gli dicono che non ha esperienza. “Ci credo, ero appena uscito dall’università. In Italia è proibito imparare un mestiere da zero”. Ripiega su una catena di negozi giapponese come commesso. “Avevo assolutamente bisogno di guadagnare. Ci sono rimasto quattro mesi. La paga era di 1600 euro straordinari inclusi, buono no?”.

Intanto spunta un annuncio in rete: uno studio di architetti in Val Chiusella, 50 chilometri fuori Torino, cerca un collaboratore. Fa domanda e lo prendono. “Mi accorsi solo dopo che era una setta religiosa. Ho progettato la casa di uno stregone e un negozio per un magnate dell’industria tessile. Volevo scappare via, mio padre però mi costrinse a rimanere visto che non avevo di meglio da fare”. Dopo tre contratti da tre mesi, uno stipendio da mille euro che arriva sempre in ritardo e tanto mobbing, se ne va.

“Non ne potevo più. Mi commissionavano dei lavori nel tardo pomeriggio, in chiusura, per il mattino successivo. Il mio computer funzionava male, i programmi erano lenti. Impossibile disegnare decentemente. Avevo la faccia piena di acne a causa dello stress. Alla fine ho scoperto che per il fisco sono stato assunto soltanto un mese. Mi hanno pagato in nero per gli altri otto. Al che non c’ho più visto. Io sono onesto, vengo una famiglia dritta, l’illegalità non l’accetto”. In quel periodo, quando stacca dall’ufficio fa la guida notturna nella redazione della Stampa, dove c’è un archivio aperto al pubblico, per arrotondare. Ma ora fa punto e a capo.

“Ero disperato. Dovevo trovare al più presto un nuovo lavoro”. Diego cerca ovunque, assicurazioni, banche, grandi magazzini, perfino negozi di ottica. Entra in un’azienda di mobili e arredi. Segue un corso intensivo di tre mesi sulle logiche di vendita. “Eravamo tutti laureati disoccupati. Ho fatto uno stage da 1200 euro al mese, poi ho firmato un contratto part-time di 30 giorni da 800 euro. Dovevo vendere cucine, camere, bagni, mobili. Quando è scaduto ho salutato tutti e sono partito per il Cile”.

Fine del travaglio, inizio della sua odissea. “Mi sento come Ulisse. La mia meta almeno per i prossimi dieci anni è il viaggio. Intanto sono qui a Santiago. In futuro cambio Paese. E un giorno, se riuscirò, aprirò un mio atelier in Europa”. Diego, finalmente, fa l’architetto. “Lavoro in uno studio con altri trentenni, sono colombiani, dal Paraguay, Guatemala e l’unica altra europea è spagnola, il resto cileni. In tutto una ventina. Progettiamo ville e grattacieli. Appena entrato mi hanno affidato il bando per il padiglione Expo. Ma alla fine se l’è aggiudicato un altro studio”.

Da settembre a dicembre dell’anno scorso è assunto come praticante. Da gennaio il capo gli fa un contratto a tempo indeterminato. “Prendo dai 1300 ai 1500 euro al mese, dipende dal cambio con il peso cileno. Uno stipendio medio di un locale è di circa 300mila peso, il mio è tre volte tanto”. Diego non fa certo la fame. “Mi faccio fare dal sarto gli abiti su misura, faccio viaggi, mangio al ristorante, vado a teatro, non bado a spese, ecco. Vivo come i nostri genitori negli anni ’70 e ’80. Ho un appartamento in affitto nel quartiere bohémien, sotto i musei e una vista mozzafiato”.

In Cile è scoppiato il boom economico. “Tutti hanno la possibilità di fare un mutuo, comprare casa, auto, farsi una famiglia. I miei colleghi sono sposati con figli”. Tutto bello fino a un certo punto. I disservizi infatti sono all’ordine del giorno e la professionalità è tutto dire. “È il Paese dei dilettanti allo sbaraglio e noi italiani abbiamo gioco facile perché anche rendendo al minimo già facciamo loro le scarpe – spiega Diego -. La sanità pubblica fa pena, l’istruzione è scarsa, e nei rapporti umani il cileno è diffidente per via dei trascorsi pinochetisti, e spesso un po’ ipocrita: ti dice ‘vengo a trovarti’ e poi non viene. Ti promettono che ‘lo faccio subito’ ma non è mai così. Sono pigri. I nostri standard di imprenditorialità ed efficienza qui se li sognano”. Ma almeno lui può fare esperienza nel suo campo. “E gli italiani sono molto apprezzati”, aggiunge.

La partenza è stata in salita. “Per i primi tre mesi ho aiutato gratis un insegnante dell’Istituto culturale italiano. Era inverno qui, gli studi di architetti avevano poche commissioni. L’ultimo giorno lo zio ingegnere di un mio alunno dice che vuole incontrarmi per un colloquio. Ci siamo visti, gli sono piaciuto e mi ha detto ti aspetto domani. Ma nel pomeriggio avevo l’aereo per l’Italia, mi era scaduto il visto turistico. Allora sono tornato, ho sbrigato le pratiche al consolato e sono ripartito per Santiago”. A settembre ha inaugurato la sua prima mostra nella capitale cilena. “Mi piace dipingere, espongo da quando avevo 19 anni. A dicembre ne farò altre due”. L’ultima si chiama “Processo”. “Mi sono ispirato al romanzo di Kafka, un bestiario umano. Ho riprodotto alcuni stati d’animo, come la paura dell’ignoto, la sorpresa del viaggio e della scoperta”.

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