Taranto è fatta di parti diverse, ma tutte sono accomunate da una patina inestinguibile di scigghio. Come tradurre ‘scigghio’? Con trascuratezza, forse, o sciatteria, ma la trasposizione in italiano impoverisce la parola di significati. Lo scigghio è qualcosa di più: è uno stato d’animo, quasi uno spleen jonico. Sembra una caratteristica negativa, e in effetti lo è. Ma presto si impara ad accettarlo, come un venticello, come quell’odore, di solito più simile a una puzza che a un profumo, che è diverso in ogni casa, e ti ci fa affezionare (…) Lo scigghio è la rappresentazione visiva di un atteggiamento mentale. È la patina di inerzia che ammanta Taranto da tempo immemorabile. Una diseducazione al bello, al ben fatto, al giusto. L’approssimazione, l’arronzamento elevati a modello supremo. L’assuefazione alla mediocrità, il disfattismo che è effetto, ma anche causa, dello sfascio, in un circolo vizioso in cui lamentarsi della rovina generale diventa la giustificazione per contribuirvi. Ma, a nuovo millennio iniziato da un po’, qualcosa finalmente comincia a cambiare“.

Giuliano Pavone è una di quelle persone che sa raccontare la sua città, Taranto, come pochi, grazie a un grande vantaggio: il fatto di essersene allontanato. E di aver quindi conseguito quella distanza di sguardo che gli consente di essere contemporaneamente severo e affettuoso, ironico e nostalgico, distaccato ma partecipe.

La Taranto malata di scigghio è la grande protagonista del libro di Giuliano Pavone, “Venditori di fumo. Quello che gli italiani devono sapere sull’Ilva e su Taranto” (Barney Edizioni), che racconta la città attraverso la vicenda centrale della sua storia dell’ultimo mezzo secolo, l’Ilva, già Italsider. La Taranto che racconta Pavone – in un libro che ha il grande merito di ripercorrere tutta la vicenda dalle origini sino agli ultimissimi sviluppi – è quella dove la questione ambientale è stata per anni nascosta come polvere sotto il tappeto, finendo per pagare un prezzo altissimo in vite umane. La Taranto che racconta Pavone è quella soffocata da una cortina di fumo in uscita dagli altiforni, ma anche da una metaforica, ma non meno venefica, cortina di omertà, disinformazione, propaganda che ha permesso alla situazione di degenerare sino a esplodere come l’ennesima “emergenza” italiana…

Emergenza che, secondo Pavone, è stata sempre affrontata con un approccio il cui unico obiettivo è la continuità della produzione a tutti i costi. Il mantenimento dei livelli di occupazione è solo un corollario di questo imperativo, mentre la necessità sempre più urgente di porre fine al disastro ambientale e sanitario (disastro tuttora in atto e ben lontano dall’essere risolto) ha trovato davvero poco spazio nel dibattito politico e nelle decisioni.

Una città, come racconta in uno dei capitoli del suo libro, dedicato al 2 agosto 2012, dove “si assiste a uno strano ‘matrimonio’, quello fra sindacati e azienda“. “Eccola la vera divisione: fra i cittadini (operai e non) da una parte, e chi li rappresenta dall’altra. I tarantini – scettici per natura ma soprattutto per esperienza – contro tutti (…) Duemila anni dopo, Taranto è ancora in guerra contro Roma. Ai tempi della Magna Grecia, le iniziali vittorie non servirono a evitare la resa. Oggi, forgiati da una vita di sconfitte, i tarantini inseguono una vittoria. Una sola, ma la più importante. Sperando che non sia un’altra vittoria di Pirro“.

Una città che a Pavone, che la guarda da lontano e da vicino insieme, manda dei segnali di cambiamenti incoraggianti, di risveglio e voglia di protagonismo dei cittadini, come quelli rappresentati dall’Apecar con cui si muovono quelli del Comitato “Cittadini e lavoratori liberi e pensanti” : “In questa storia c’è molto dei tarantini, di quello che sono sempre stati e di quello che, forse, stanno diventando. La novità sta nella voglia di partecipare, di cui il Comitato è una delle espressioni. Un gruppo di persone che parla in modo semplice ma quasi mai semplicistico. E che ha saputo dire quello che i tarantini avevano aspettato invano di ascoltare dai loro rappresentanti. E il punto non è tanto stabilire quanto siano bravi quelli dell’Apecar o al contrario se abbiano limiti e difetti, ma considerare le mancanze che li hanno portati dove sono. E i motivi di una sfiducia che non basta liquidare come antipolitica ma che ha spiegazioni perfettamente logiche considerando lo svolgimento dei fatti“.

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