Il 30 marzo 2010 al Cern di Ginevra con il primo tentativo di collisione ad alta energia si compie la scoperta scientifica più importante e clamorosa del XXI secolo, ma i suoi autori ne sono certi e il mondo intero se ne rende conto solo il 4 luglio 2012 quando in una sala gremita di fisici e giornalisti vengono illustrati i dati finali e tra standing ovation e champagne si pronuncia la frase magica: lo abbiamo trovato! L’entusiasmo è tutto per il Bosone di Higgs, quella particella mancante nel cosiddetto modello standard della materia e fondamentale nel tenere insieme le altre già note, l’ultimo pezzo del puzzle necessario per capire le leggi fondamentali della natura, responsabile della creazione degli atomi, delle molecole, dei pianeti e dell’uomo, insomma, della vita, della quale per primo aveva scritto negli anni sessanta Peter Higgs, Nobel per la Fisica 2013 assieme a Francois Englert.

Come si arriva alla grande scoperta lo rivela passo dopo passo La particella di Dio, il film-documentario di Mark Levinson, fisico e filmaker, in prima Tv assoluta mercoledì 17 dicembre alle 22.00 su LaEffe dopo essere stato presentato il 24 ottobre scorso al Festival della Scienza di Genova e prima dell’uscita nelle sale cinematografiche prevista per il 22 gennaio, distribuito da Feltrinelli Real Cinema. E lo fa tra immagini spettacolari e racconti dei protagonisti che alternando al linguaggio tecnico parole semplici ed esempi quasi banali, riescono a far capire tutto anche a noi profani.

Comincia nel 2007 il fisico teorico e produttore del film David Kaplan mostrando la più grande macchina mai costruita dall’uomo per riprodurre il Big Bang, l’acceleratore di particelle o Lhc, un’immensa ruota da Luna Park con enormi magneti conduttori blu raffreddati a elio, che dopo tanti anni di teorizzazioni sta per essere accesa per testarle e “cambierà tutto” dice. Coordinatrice di parte dell’esperimento la fisica italiana Fabiola Gianotti, oggi nuovo direttore generale del Cern dove arrivò nel 1987 neolaureata e “spaventata dai corridoi” racconta.

Ma è Monica Dunford, giovane ed entusiasta fisica fresca di dottorato, a spiegare che l’esperimento non è in realtà ciò che spontaneamente fanno i bambini per conoscere il mondo quando prendono due cose e le sbattono l’una contro l’altra: a scontrarsi però sono due fasci di protoni, elementi dell’atomo e della materia, e ad altissima velocità in un cerchio di 27 chilometri nel quale vengono sparati da direzioni opposte e ad ogni collisione, e sono miliardi, una fotocamera di 7 piani scatta una foto.

Si arriva così al primo lancio di protoni del 10 settembre 2008, con i giornali che parlano di rischio d’apocalisse e lanciano l’allarme sul pericolo che la terra possa essere ingoiata da un buco nero prodotto dall’Lhc. Non accade naturalmente, succede invece che un puntino luminoso sullo schermo di un computer genera un entusiasmo così grande e vero da mostrare il volto umano della scienza e dei suoi fautori. Una scienza che unisce se si pensa che all’esperimento già concepito negli anni Ottanta, attraverso la prima rete globale, hanno contribuito scienziati di oltre 100 paesi diversi e anche nemici tra loro, come Iran e Israele o India e Pakistan o Russia e Georgia, tra fisici teorici e sperimentatori, gli uni necessari agli altri, ma tutti con quella “capacità artistica – dice il mentore di Kaplan, Savas Dimopoulos – di riconoscere una buona idea su un problema ancora da risolvere”. Come capire se il nostro non sia che un “multiverso” dominato da caos e casualità o un mondo regolato da una “supersimmetria”.

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