Che alcuni politici non sappiano più cosa sia l’onestà è cronaca, romana ma non solo. La corruzione e la malversazione dilagano e sono misurazioni puntuali della disonestà materiale che imperversa in troppi settori; con buona pace del presidente Napolitano, l’antipolitica, anche nelle sue forme più estreme, trova nutrimento e giustificazione in questo.

Alla disonestà materiale se ne abbina un’altra, che raramente assurge agli onori della cronaca, ma che per certi versi è subdolamente perfino peggiore: si tratta della disonestà intellettuale, cioè della pratica di sostenere tesi che servono solo a dissimulare ipocrisie, falsità e le vere motivazioni di un’azione; in parole povere: mentire sapendo di mentire.

Un esempio di grave distorsione della verità è la proposta di emendamento alla legge di stabilità che vorrebbe mantenere le penalizzazioni per chi volesse ritirarsi al lavoro con 41/42 anni di servizio per percepire una pensione calcolata con metodo retributivo o misto, in età inferiore ai 66 anni.

La misura, alla quale verrebbe abbinato anche il divieto di cumulo tra reddito pensionistico e altro reddito, sempre per individui con le caratteristiche citate, viene come sempre contrabbandata come ispirata a pretesa equità previdenziale, lasciando credere – soprattutto a chi vuole comodamente o ideologicamente credere senza approfondire – che la ridistribuzione di reddito pensionistico dagli importi medi e alti a quelli bassi faccia finalmente giustizia di privilegi usurpati sulla pelle e a scapito di altri.

Nulla di più falso; nel sistema previdenziale la discriminante tra privilegi e giusta restituzione differita di accantonamenti fatti durante la vita lavorativa può essere solo la valutazione puntuale della congruità tra la somma degli assegni che verranno teoricamente ricevuti nella aspettativa di vita e l’ammontare dei contributi versati e rivalutati nel tempo. Qualsiasi altra considerazione basata unicamente e acriticamente sull’ammontare della pensione nasconde intenti di natura diversa, poco chiari, utilitaristici e spesso preconcetti e la manovra assume i contorni di operazione intellettualmente disonesta.

Nel caso specifico, dovrebbe essere ormai arcinoto a tutti coloro che vogliano e siano in grado di informarsi, che il sistema retributivo garantiva benefici sostanziali rispetto alle spettanze soprattutto per i redditi bassi e che, anzi, da redditi annuali intorno ai 120.000 € lordi in poi, salvo anomalie riscontrate quasi solo in particolari settori di dipendenti pubblici, era meno favorevole del calcolo contributivo; per i redditi elevati, quindi, non restituiva nell’aspettativa di vita i contributi indicizzati.

Per esemplificare, il grafico compara approssimativamente i due sistemi di calcolo nelle ipotesi di un reddito crescente costantemente al tasso di inflazione 2% nella vita lavorativa, di un rateo di contribuzione costante e pari al 27%, di 40 anni di anzianità al termine dalla vita lavorativa, di un’aspettativa di vita di 79 anni e di un’età di pensionamento di 61 anni. I calcoli non sono accurati al minimo dettaglio, ma il modello è attendibilmente questo.

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E’ evidente che lo spartiacque di 3.500 € lordi mese per imporre penalizzazioni, come nella sciagurata proposta in discussione, implica andare a penalizzare le pensioni derivanti da un’ultima retribuzione di circa 80.000 € lordi/anno a salire e così facendo verrebbero colpite anche e soprattutto le pensioni derivanti da ultimo reddito di 120.000 € lordi/anno o superiore, cioè quelle che a rigor di logica e buon senso sono proprio quelle che hanno montanti contributivi che ne giustificano l’assegno calcolato con il sistema retributivo, anche in caso di ritiro a 61 anni.

Si può obiettare che i pensionandi potrebbero optare per un calcolo interamente contributivo in modo da sottrarsi alle assurde tagliole organizzate per loro da un drappello di deputati del Pd, ma purtroppo ciò non è possibile perché l’Inps non concede questa opzione a chi nel 1995 – data della riforma Dini – avesse già avuto almeno 18 anni di anzianità di servizio e, matematica alla mano, chi maturasse 41 o 42 anni di anzianità entro il 2017 sarebbe certamente in queste condizioni. Non ci sarebbe pertanto via di scampo: da un lato leggi precedenti inibiscono ai percettori di redditi alti l’opzione contributiva, che peraltro sarebbe favorevole per moltissimi di loro, dall’altro lato proprio questa impossibilità li relegherebbe entro le regole pazzesche proposte.

Verrebbe da pensare a un accanimento ben congegnato: hai lavorato per molto con stipendi elevati e contributi proporzionali? Allora sei da penalizzare; due volte: la prima impedendoti di utilizzare il calcolo a te più favorevole e la seconda costringendoti a continuare a lavorare oppure ad accettare una seconda penalizzazione, come quando piove sul bagnato.

Pare che i deputati Pd che hanno presentato questa proposta non abbiano affatto in mente un sistema previdenziale equo e che, come più volte sentenziato dalla Corte Costituzionale, garantisca la continuità reddituale tra la vita lavorativa e la pensione; se questo volessero perseguire dovrebbero infatti e per assurdo far funzionare lo spartiacque al contrario e cioè esonerare dalle penalizzazioni quei soggetti il cui ritiro anticipato non comporta ricevere più di quanto versato e penalizzare invece i ritiri “precoci” dei lavoratori con redditi sino a circa 110.000 € lordi/anno.

Questo comporterebbe tagliare in modo significativo le pensioni retributive medie e basse, cosa che nessuno di buon senso vorrebbe fare per ovvi e incontestabili motivi sociali; pertanto sarebbe bene conciliare le istanze sociali con un po’ di onestà appunto intellettuale e dimenticarsi sbarramenti quantitativi che sanno più di accanimento pauperista che di buona politica.

Peraltro – e purtroppo – i numeri dicono che gli stipendi elevati sono quantitativamente pochi e pertanto la forzata permanenza in attività dei quadri e dirigenti ormai anziani avrebbe una rilevanza modesta per le casse dell’Inps mentre d’altro canto farebbe di questi una specie di casta inferiore: unici forzati all’attività oppure ri-penalizzati, pur essendo unici ad avere contributi che permetterebbero l’uscita.

In altri termini: cornuti e mazziati, in termini previdenziali.

Quanto al divieto di cumulo, costringerebbe persone già in pensione e con partita Iva aperta a chiuderla di corsa oppure – e l’onestà intellettuale vorrebbe che si dichiarasse apertamente che questo è l’intento dell’emendamento – a vedersi ridotta la pensione del 20% (!) per qualche anno; tutto questo, si badi bene, mentre i contributi addizionali che vengono versati alla gestione separata dell’Inps come lavoratori autonomi vanno sostanzialmente persi.

Nel complesso: un insieme di vessazioni e ricatti che l’onestà intellettuale vorrebbe non venisse denominata “correzione equa”.

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