Cinquecentocinquantacinque chilometri. Per percorrerli non ci vogliono più di 6 ore con il  modernissimo treno ad alta velocità inaugurato due anni fa per gli Europei di calcio in Ucraina. 555 chilometri è la distanza che separa Kiev da  Sloviansk. La Capitale dalla guerra. Fino a poco meno di un anno fa, il treno superveloce  arrivava sino a Donetsk. Ora Donetsk è semidistrutta dai bombardamenti. Al di là delle  linee ucraine. Irraggiungibile. In mano al “nemico”.
Sloviansk invece è stata riconquistata  nel luglio scorso. Il cielo è grigio di freddo. Grigi sono i muri sventrati dai colpi di mortaio e  di artiglieria, orbite vuote le finestre. Grigi gli enormi cumuli di macerie sparsi ovunque sul  terreno costellato dai crateri delle bombe. Il grigiore è spezzato soltanto dalle sagome  nere e contorte di alberi bruciati. È il paesaggio della riconquista. In questa silente desolazione si sente solo il verso degli stormi di cornacchie che vanno a posarsi sui  detriti. 
Macerie, crateri, alberi bruciati è tutto ciò che resta di quello che era il più  grande ospedale della città. Raso al suolo dai colpi dell’esercito ucraino.  “L’ospedale era stato evacuato – ci spiega una signora che raccoglie fondi per l’ esercito  ucraino – è stato bombardato perché vi si era installato il comando dei ribelli”. Sembra  assurdo che per “Liberare” la città i “Liberatori” non abbiano esitato a distruggerne le  strutture vitali: ospedali, scuole, centrali elettriche. Ma l’assedio di Sloviansk è consistito  proprio in questo, chiudere ogni via di accesso alla città e dopo averne distrutto strutture e infrastrutture, bloccare l’arrivo di qualsiasi rifornimento, da quelli militari a quelli  alimentari e sanitari, strangolando nella stessa morsa combattenti e civili.
Sfollati non se  ne vedono, cioè ci sono ma in numero esiguo… ma la situazione sta evolvendo proprio  in queste ore… Ti dicevo, ieri ci hanno invitato a una ‘Assemblea di quartiere’ uno dei  più bombardati – Sono incazzati perché questi ribelli sparano mortai nelle vie dove abita la gente, dove poi cadono i colpi di risposta dell’esercito ucraino causando danni,  feriti etc. Il malcontento è ormai visibile. La gente non vuole la guerra”. Queste parole  sono contenute in un sms che Andrea Rocchelli ha inviato a Damiano Rizzi, della ong  Soleterre , a maggio, all’inizio della controffensiva ucraina. Si tratta quasi  certamente della sua ultima testimonianza. Perché il giorno 24 di quello stesso mese  Andrea e il suo interprete, il giornalista russo Andrej Mironov, sono rimasti uccisi da colpi  di mortaio in un fossato dove avevano cercato rifugio dopo che l’auto sulla quale  viaggiavano era stata bersagliata da raffiche di mitra. Colpi di mortaio sparati dalla medesima collina dalla quale è stato poi bombardato l’ospedale. “La  gente non vuole la guerra…”. Ma quanto peso ha la voce della gente comune in questo  scontro voluto da grandi potenze e ricche oligarchie? E soprattutto chi la ascolta?
La strada che  da Sloviansk conduce ad Artjomovsk, nelle immediate retrovie del fronte, corre diritta per  la piana tra campi incolti e betulle. Il fondo è ghiacciato. Il ghiaccio ha rivestito tutto, dai fili  di erba secca al più sottile rametto di albero. Con un furgone lanciato a velocità folle da  Ghennadj, l’autista, attraversiamo un panorama di cristallo. Ghennadj corre perché teme  incursioni di “separatisti” infiltratisi dentro le linee ucraine. Dopo il primo posto di blocco, fatto di grossi cubi di cemento e sacchetti di sabbia e presidiato da miliziani infreddoliti,  armati di kalashnikov, la corsa riprende. Le vie di Artjomovsk sono deserte. Qua e là  qualche casa bruciata. Si sentono radi colpi di fucile rimbombare, a tratti, in lontananza.
Ci fermiamo alla sbarra d’ingresso dell’ospedale militare davanti all’alt che ci viene  impartito da un gigante barbuto in tuta mimetica. In realtà questo era l’ospedale civile, ma  un’ala intera è stata requisita dall’esercito per il primo soccorso ai soldati feriti che ogni  giorno arrivano dal fronte che dista venti, trenta chilometri, dipende, ché le linee sono  molto mobili e incerte. L’omone barbuto si chiama Nicolaj. Scopriamo che prima di  arruolarsi faceva l’arredatore di interni. È lui che ci scorta dentro l’ospedale. Scale strette, corridoi semibui, lettighe e casse di medicinali sparse qua e là, odore di sudore e  disinfettanti. Anche i corridoi sono angusti, a malapena riusciamo a passare affollati come  sono di infermieri con i camici sporchi e miliziani con pistole e bombe a mano appese agli  spallacci. La mole di Nicolaj che ci fa largo è di parecchio aiuto. Sul pavimento della  stanza zaini ed elmetti. Ci sono due soli letti. In uno è steso Alexiej, poco più di vent’anni,  ha una gamba spezzata. “Una stupidaggine – ci dice – sono cappottato con la camionetta  che stavo guidando. È colpa mia, ho fatto una stupidaggine”. Quasi si vergogna Alexiej  che la sua non sia letteralmente una ferita di guerra. Sull’altro letto è seduto un uomo più anziano, oltre la cinquantina. Ha indosso la sua mimetica e gli anfibi ai piedi. È assorto e  tranquillo, pare star bene. Invece, qualche ora fa, è stato colpito da un proiettile di arma  automatica al braccio sinistro, poco sotto la spalla. È stato fortunato Vassilj, qualche centimetro più in là e il proiettile lo avrebbe raggiunto al cuore. Gliel’hanno appena estratto. Si fruga in una tasca e ce lo fa vedere. “Lo attaccherò a una  catenina da appendermi al collo come portafortuna” ci dice con un sorriso. Poi ci mostra  il foro di entrata sul braccio. Lo fa senza enfasi, senza emozione. Quasi che a essere stato colpito non  fosse stato lui ma un altro. Ed è ad altri che Vassilj sta pensando. Indica Alexiej, “…io in  fondo, buona parte della mia vita l’ho già vissuta…”. Vassilj ha una piccola società di  trasporti, moglie e due figli, a loro non farà sapere di essere stato ferito. “…ma questi  ragazzi? La guerra gli sta rubando il presente, gli anni più belli della loro vita.” Non ama la  guerra Vassilj. “Speravo che il nuovo presidente Poroshenko aprisse trattative di pace…  Ci sarà pure un modo per uscire da questa crisi senza continuare ad ammazzarci a  vicenda… ma invece – conclude amaro – siamo ancora qui. Io ci resterò finché ce ne sarà bisogno. Certo”. Vassilj si vanta di non aver mai sparato un colpo. “Disinnesco mine e ordigni inesplosi. Preferisco salvare vite che toglierle ad altri”.
Nicolaj, Alexiej, Vassilj, la  giovane dottoressa Natalja, infagottata in un’uniforme che le va larga, arrivata qui da poco ma con già sul viso i segni della stanchezza e dello smarrimento, Serghej che mi dà il numero di telefono di sua sorella che vive a Roma: “Dille solo che sto bene per favore”,  altri soldati e miliziani dei quali non conosco il nome, armi, scarponi, tute mimetiche come  quelle indossate da tanti ragazzi a Maidan a Kiev. Nei loro volti però non c’è traccia dell’esaltazione e del fanatismo di quelli dei “Patrioti” della Capitale. C’è rassegnata  amarezza, lo sfinimento triste impresso dal vivere quotidianamente l’orrore della guerra.
Andrej incute timore. L’uniforme tirata a lucido, tozzo e robusto, il cranio rasato a zero,  lucido come l’uniforme. Fuma sigarette russe, nere, infilate in un lungo bocchino dorato.  “Volete vedere i bambini?” ci chiede. “Quali bambini?”, non capiamo. “Gli orfani di Donetsk. Quelli che già non avevano genitori e quelli che li hanno persi per la guerra. Li  porto qui ad Artjomovsk perché sono più al sicuro. Donetsk è bombardata di continuo. Ci  sono i separatisti là”. “E i separatisti le consentono di entrare in città e prelevare i  bambini?”. Alza le spalle: “Beh, hanno un cuore anche loro”. Seguiamo l’auto di Andrej.  Una macchina sportiva, con la targa nascosta da strisce di nastro adesivo. Andrej  dev’essere un’autorità perché ai posti di blocco nessuno ci ferma per controlli.
L’orfanotrofio è collocato in una palazzina bassa a un piano, non lontana dal centro di  Artjomovsk. Tre scalini e varchiamo la soglia. Ci ricevono due donne vestite da infermiere. “Ci sono 50 bambini fino ai 4 anni d’età qui. E 26 ce li ho  portati io”, dice Andrej. Da dietro una porta chiusa ci giungono voci infantili, i singhiozzi  di un pianto di bimbo. Non si aprirà quella porta. “No. I bambini non si possono vedere”.  L’infermiera più anziana è irremovibile. “Serve un’autorizzazione. Voi non avete  l’autorizzazione”. Ce ne andiamo. Lasciamo Artjomovsk seguendo la macchina con la  targa coperta del misterioso Andrej che ci farà superare senza difficoltà i posti di blocco.  Nelle orecchie e nel cuore le voci e il pianto dei bambini invisibili. Invisibili come i bambini di tutte le guerre.
Da Il Fatto Quotidiano del 12 dicembre 2014
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