Massimo Carminati? Dovrebbero dargli un premio, ha scoperchiato il vaso di Pandora. Non è certo lui il problema, sono i politici italiani il vero cancro di questo Paese. Non credo che uno come Carminati abbia cercato Alemanno, semmai è vero il contrario”. Inizia così la lunga chiacchierata con Ernesto Diotallevi, che la vulgata comune racconta essere uno dei boss della Banda della Magliana. Persino Enrico Nicoletti, uomo di spicco della criminalità romana, in un’intervista riconosce in Diotallevi il Secco di Romanzo Criminale. “È stato proprio quel film a rovinarmi”, risponde lui, “ha creato il mito. Mi fermano i figli degli avvocati e dei magistrati della Roma bene per chiedermi notizie sulla banda. Se pijamo Roma, dicono. La verità è che la banda non è mai esistita. Era un gruppo di cani sciolti che si sono uniti di tanto in tanto per fare affari. A Roma la mafia non esiste”.

montaggio di Gisella Ruccia

È lunedì mattina e vengo introdotto nel suo attico romano, affaccio su Fontana di Trevi, sfarzo di marmi e arazzi sui muri. C’è pure un dipinto di papa Roncalli che osserva dalla parete. Qui, nel dicembre 2013, un’operazione congiunta dei carabinieri del Ros e della Guardia di Finanza ha sequestrato beni per oltre un milione di euro. “Ma non è vero, ribatte lui, i quadri presi varranno in tutto 50mila euro. È solo l’ennesimo attacco alla mia persona” . Nel corso della sua vita il 70enne Diotallevi è stato accusato praticamente di tutto. L’omicidio di Roberto Calvi, l’attentato a Roberto Rosone, il crac del Banco Ambrosiano, la scomparsa di Aldo Moro, gli affari sporchi al retrogusto di usura con il faccendiere piduista Flavio Carboni, il traffico di droga, l’amicizia borderline con Massimo Carminati e Danilo Abbruciati, il sodalizio con Pippo Calò e la mafia siciliana. “Sono un cittadino libero, per il processo sulla banda della Magliana sono stato assolto”, rivendica mostrando la sentenza. “Il mio problema è che mi sono sempre rifiutato di dichiarare pubblicamente la mia versione dei fatti”.

Come mai?
Chi rilascia interviste ai miei occhi è un mezzo pentito.

Perché allora oggi si è deciso?
Stanno mettendo in mezzo la mia famiglia, i miei figli. Questo non posso tollerarlo. (Accanto a lui, sul divano, siedono la moglie Carolina Lucarini e proprio uno dei due figli, Mario).

È notizia di questi giorni: in un’intercettazione si sente Mario cercare accreditamenti in alcune logge massoniche e presso la gendarmeria vaticana.
Perché pubblicare quelle conversazioni private che nulla c’entrano con l’inchiesta di Pignatone? Mio figlio è un imprenditore, come me del resto. Cercare di inserirsi negli ambienti che contano fa parte del nostro lavoro. Io sono un tipo pratico, non faccio dietrologie. Sono sempre stato uno svelto a fare affari, perché metto in contatto persone diverse con interessi convergenti.

È la teoria del “mondo di mezzo” enunciata da Carminati.
Per me Carminati è un bravo ragazzo. Intelligente, molto colto. Magari si esprime un po’ così, è uno che ti può tranquillamente dire “te strozzo, t’ammazzo” ma poi finisce lì.

Dove vi siete conosciuti?
In carcere. Ormai però lo incontravo raramente. Del resto io sono 15 anni più vecchio. Che faccio? Me metto a giocà coi regazzini?

Che ne pensa dell’inchiesta di Mafia Capitale?
È lo Stato stesso che crea la malavita. Uno va al Comune per una licenza e deve aspettare sei mesi. Lo sa quanto costa quel ritardo? Ecco perché si è costretti a oliare, solo per prendere quello che ci appartiene. A me la gente per strada mi ferma e mi chiede ogni tipo di favori: parla con questo, sblocca questa situazione…

Da dove vengono i soldi se nega di essere un boss?
Io ho un patrimonio ereditato dalla zia di mia moglie, mi limito a gestirlo. Ma perché mai dovrei mettere le mani in mezzo a ‘sta monnezza? Io non ho mai incontrato Buzzi né Odevaine, per capirci.

Però anche Antonio Mancini, l’Accattone della Banda della Magliana, in questi giorni fa il suo nome, indicandola come uno dei pesci grossi della mala romana.
Mancini? Ma come fai a credere a uno come Mancini che fa il pentito da sempre?

E Pippo Calò? C’è chi sostiene che suo figlio Mario si chiami così proprio in onore del boss di Palermo. Il nome di copertura di Calò qui a Roma quando lasciò la Sicilia era, appunto, Mario Aglialoro.
Ma vogliamo scherzare? Mario si chiama come lo zio di mia moglie.

Calò l’ha conosciuto però.
Sarei un falsone se dicessi di no. Con Calò c’era amicizia, andavamo spesso a cena ma nulla di più. Io lo conoscevo come Mario, punto. Ai tempi non sapevo che era latitante.

In un’intercettazione apparsa sui giornali suo figlio Leonardo le chiede chi sia il boss di Roma. E lei risponde: “Tecnicamente so’ io, materialmente Giovanni De Carlo”.
Stavamo scherzando. Tornavamo in macchina da Fiumicino. Lui per boss intendeva quello che se frega più donne di tutti.

Però, mi scusi, subito dopo lei indica Riina come il capo dei capi. Anche lui se le fa tutte?
Ma no che c’entra, ho detto Riina perché è un nome che leggo sui giornali. Le intercettazioni non sono oro colato, uno può pure scherzare no?

Ma allora, se dobbiamo crederle, come si spiega quest’accanimento?
Vuole la verità?

Magari, sarei qui per questo.
Nei primi anni ’80 Carlo Mastelloni, all’epoca pm a Venezia, indagando sui Nar (Nuclei armati rivoluzionari, ndr) scrisse che ero la spalla di Fioravanti. Io l’ho querelato perché non era vero. Otto giorni dopo arrivò il mio primo mandato di cattura.

Come andò a finire?
Il giudice Lupacchini, dopo avermi interrogato, fu costretto a scarcerarmi. E lo sa quale fu la soddisfazione più grande? Qualche tempo dopo ero all’aeroporto ad aspettare mio figlio che tornava da una gita scolastica e lo incontrai. Anche lui aspettava il figlio, andavano a scuola insieme al Collegio Nazareno. Quando il figlio scese dall’aereo, davanti a me, disse: “Papà, tu a Ernesto non devi arrestarlo più, perché è un bravo padre di famiglia”.

di Fulvio Benelli

da Il Fatto Quotidiano dell’11 dicembre 2014

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