In ottobre il numero degli occupati in Germania ha raggiunto un nuovo record superando quota 43 milioni. E’ la prima volta che succede dalla riunificazione. La disoccupazione è al 6,7%, nella zona euro riesce a fare meglio solo l’Austria (5,1%). Merito della riforma del lavoro di Gerhard Schröder, il cancelliere della Spd che ha governato prima di Angela Merkel. Nel 2003 Schröder, aiutato dall’allora responsabile delle risorse umane della Volkswagen Peter Hartz, lanciò l’Agenda 2010 che ha reso più flessibile il lavoro, razionalizzato la formazione professionale e ridimensionato i sussidi di disoccupazione.

Assumere è diventato più facile, anche grazie ai contratti mini-job: lavoretti da 450 euro al mese che prevedono oneri sociali molto ridotti per il datore di lavoro. Una riforma epocale, a cui si ispira oggi Matteo Renzi con il suo Jobs Act. Del resto anche la Germania alla fine degli anni novanta veniva considerata “il malato d’Europa”, un paese schiacciato dai costi della riunificazione, bloccato dalla burocrazia e da un sistema sociale considerato troppo generoso. Oggi, al contrario, è tra i paesi che sta resistendo meglio alla crisi finanziaria e nel frattempo (dal 2005 se si sta alla famosa copertina dell’Economist) il grande malato è tornato ad essere l’Italia.

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Se la riforma del lavoro ha funzionato in Germania perché non provarci, con gli opportuni adattamenti, anche in Italia? Il ragionamento in teoria può essere valido. Se però si fa uno sforzo in più e si cerca di capire meglio i numeri tedeschi si fanno scoperte interessanti.

Come evidenziano i dati dell’istituto tedesco di statistica e dello Iab (l’agenzia governativa per la ricerca sul mercato del lavoro) nel 2013 nella Repubblica Federale si è lavorato per 58,07 miliardi di ore, mentre nel 2000 il monte ore totale era pari a 57,92 miliardi di ore. In sostanza negli ultimi tredici anni la somma delle ore lavorative non è cambiata, solo che gli occupati sono cresciuti dai 39,92 milioni del 2000 ai 42,3 milioni del 2013. 2,38 milioni di posti di lavoro in più a parità di ore lavorate. Cosa significa? Che in molti casi un posto di lavoro a tempo pieno del 2000 si è trasformato in tre mini-job o in due part-time. Ci sono più occupati ma sono occupati per meno ore, meno soldi e con minori garanzie.

Per aumentare la ricchezza di in un paese non basta che un numero maggiore di cittadini abbia un lavoro. E’ anche necessario che il lavoro sia pagato adeguatamente e dia prospettive di crescita professionale e mobilità sociale. In Germania negli ultimi anni questo non si è verificato, o si è verificato solo in parte. Il numero dei lavoratori a tempo determinato è passato dai 6,5 milioni del 2003 agli 8,6 milioni del 2012 (2,1 milioni in più). Secondo quanto riportato dalla Fondazione Hans Böckler, vicina ai sindacati, in Germania il 21,1% dei lavoratori è oggi assunto con un mini-job a 450 euro al mese, mentre il 42% di tutti i nuovi contratti sono a tempo determinato. Nel 1997 questa percentuale era pari al 34%.

Non è un caso che, nonostante i numeri incoraggianti del mercato del lavoro, oggi 13 milioni di tedeschi (uno su sei o il 16,1%) vivano al limite della soglia di povertà (povertà relativa). A dirlo è l’istituto nazionale di statistica. A rischio sono soprattutto le donne, i single e le madri sole, il 69,3% dei disoccupati e l’8,6% dei lavoratori: 3,4 milioni di cittadini che hanno un’occupazione ma fanno fatica ad arrivare a fine mese.

Nelle statistiche sul record degli occupati ci sono anche loro. A ricordarci che il “sogno tedesco” è solo una versione un po’ più elegante dell’incubo europeo e mondiale: quello di un mercato del lavoro sempre più atipico e rigidamente suddiviso tra pochi privilegiati e un numero sempre maggiore di precari marginalizzati.

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