Io ho cinquantacinque anni. Sono trent’anni che ho fatto del cinema il mio lavoro principale. Ho prodotto cento film, tra lungometraggi e cortometraggi. Miei film sono andati in tantissimi festival nel mondo. Mi sono emozionato, quando era tempo di emozionarsi. Negli anni l’emozione ha ceduto il passo ad altro. Ho riscosso successi, quasi sempre gratificanti, solo qualche volta appaganti. Ogni tanto qualche fischio. Ho pagato duramente sulla mia pelle errori commessi e anche alcuni non commessi. Mi porto addosso tante cicatrici e qualche ferita ancora aperta. Sono ossessionato dall’idea che questo lavoro mi abbia fatto diventare brutto, disonesto e scorretto, mancando di rispetto a molte persone, magari solo non dando una risposta. Le domande sul senso, sul perché, sul per chi spesso ormai non hanno una risposta chiara. Eppure continuo, vado avanti, con lo stesso entusiasmo di trent’anni fa. E’ il lavoro che volevo fare da bambino, l’ho scelto io, anche di farlo così. Ma non sempre è facile, non sempre basta ripetersi tutto ciò.

Poi un giorno arriva l’ennesima prima proiezione ad un Festival, quello di Torino, del centesimo film prodotto: Qui di Daniele Gaglianone. La sala è piena. Molta gente rimane fuori, non riesce ad entrare. Fa caldo. Si respira la tensione. Il tema NoTav è scottante, molto più qui a Torino che altrove. Vagando per le strade della città ci si imbatte spesso in scritte sui muri e manifesti che inneggiano alla lotta. La politica, anzi no, i partiti di questa città invece hanno le idee ben chiare: la lotta è sbagliata. E forse allora non è un caso che a qualche decina di chilometri da qui ci sono centinaia e centinaia di persone indagate solo perché vogliono salvaguardare il proprio futuro, lottando contro un presente minaccioso perché bugiardo, fazioso, irrispettoso, ingiusto. Profondamente ingiusto. In carcere ci sono quattro ragazzi accusati di terrorismo che rischiano una detenzione di dieci anni per aver danneggiato un compressore. E noi vogliamo cercare di far conoscere a più persone possibili le ragioni dei cittadini della Val di Susa attraverso questo film. Non è facile, in un paese dove si tende a dimenticare che “loro” in fondo siamo anche “noi”, in questo come in tanti altri casi.

Parte la proiezione. L’aria è diventata quasi irrespirabile. Io sudo. Il film l’ho già visto. Ma è la prima volta che lo vedo sullo schermo grande in compagnia di centinaia di altre persone. Mentre scorrono le immagini, mentre va avanti la galleria di persone normali che raccontano, ci raccontano e si raccontano, che tutto hanno fuorché l’aspetto di terroristi o bombaroli, mi guardo intorno. Il pubblico è attento. Nessuno se ne va. Il film fa pensare. Fa incazzare. Fa sorridere. Io piango, come non mi accadeva da anni al cinema. Piango perché a me viene da piangere quando un padre ex carabiniere mi racconta di aver educato un bambino di nove anni al rispetto dei poliziotti e il bambino chiede incredulo a quel padre se siano stati veramente i poliziotti a devastargli la faccia in venti fratture con due lacrimogeni. Piango perché a me viene da piangere quando tre persone, con il sorriso sul viso e la dignità nelle parole pacate mi raccontano che la loro casa potrebbe essere cancellata, senza che chi la cancellerà abbia pensato di avvertirli. Piango perché a me viene da piangere quando vedo una signora che potrebbe essere mia zia che si è dovuta ammanettare ad un cancello solo per dire io ci sono, io esisto, io rimango qui.

Piango. Con le lacrime che scendono sul viso, senza vergogna nei confronti delle persone che ho accanto e che potrebbero vedermi.

Quando il film finisce e le luci si accendono, ho il viso ancora bagnato. Lo lascio così.

Guardo Daniele. Guardo Enrico. Guardo Domenico. Guardo Vito. Guardo Andrea. Guardo Francesca. Guardo Walter. Guardo Valentina. Guardo Camilla. Guardo Cristina. Guardo le persone che abbiamo raccontato, che ci hanno raccontato, che si sono raccontate. E’ anche nei loro volti che stavolta trovo il senso, il perché, il per chi.

Esco dalla sala quando inizia il dibattito. Riesco ad ascoltare prima di uscire il lucido commento di Luca Rastello. Poi a testa bassa me ne vado. A medicare qualche mia ferita.

Alla fine, a me come regista di questo film, non è più questo che importa, il torto o la ragione. A me importa che alla fine di questo viaggio chi ha guardato questi volti e ascoltato queste voci comprenda che è possibile trovarsi nella loro condizione e fare le loro scelte, e che tutto questo, qui e ovunque, merita molto rispetto. E anche tanta gratitudine” (Daniele Gaglianone)

Articolo Precedente

Torino Festival, Pattinson ora sa recitare. Tre registi per docu-film sugli anti-Putin

next
Articolo Successivo

Melbourne, se Hitchcock si reincarna in un regista iraniano

next