Novantesima giornata mondiale del risparmio dell'ACRISi è discusso molto della proposta di riforma del Trattamento di Fine Rapporto (TFR), secondo la quale i dipendenti del settore privato (escludendo i lavoratori del settore pubblico, dell’agricoltura e i lavoratori con contratti di lavoro precario) potranno decidere di ricevere in busta paga le somme che ogni anno vengono accantonate dalle imprese per poter pagare la cosiddetta buona uscita o liquidazione al lavoratore.

La discussione sulla riforma ha riguardato fino ad ora ed in gran parte la convenienza per il dipendente a liquidare parte del Tfr, gli eventuali oneri a carico delle imprese, gli effetti di scoraggiamento sulla previdenza integrativa, il trattamento fiscale del Tfr liquidato, gli oneri amministrativi e burocratici per lavoratori e imprese.

Pochi hanno però fornito indicazioni su quale potrà essere l’impatto della riforma sui consumi aggregati e sul prodotto interno lordo (Pil). Forse perché dare la possibilità ad lavoratori di ricevere “il Tfr in busta paga”, cioè ridistribuire il proprio reddito nel corso della vita lavorativa, non rappresenta nuovo reddito e dunque non dovrebbe avere alcun effetto sui consumi (questo tralasciando ovviamente gli aspetti fiscali e amministrativi che potrebbero effettivamente modificare il reddito degli individui). Questa distinzione è molto rilevante dato che le teorie economiche più accreditate sul consumo suggeriscono che gli individui tendono a mantenere un livello di consumo stabile nel corso del tempo, avendo come punto di riferimento il proprio “reddito vitale” e non il modo in cui il reddito affluisce in un particolare mese o anno.

Perché ricevere il Tfr in busta paga dovrebbe aumentare i consumi?

Ovviamente non tutti possono attutire le variazioni del reddito da un mese all’altro o da un anno all’altro, indebitandosi o attingendo ai propri risparmi per mantenere un profilo dei consumi stabile nel corso della loro vita. In altre parole, sono esattamente questi lavoratori soggetti a vincolo di liquidità che potrebbero utilizzare da subito l’anticipo del Tfr per sostenere i loro consumi; questo è esattamente il motivo per il quale ci si aspetta un impatto della riforma del Tfr sui consumi. Occorre dunque calcolare il numero dei lavoratori del settore privato pronti a spendere interamente il “Tfr in busta paga” per avere un’idea approssimativa dell’impatto aggregato di questa riforma.

Ma quanti sono questi lavoratori?

Dalle indagini recenti della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie si calcola che circa il 6 o 7% dei dipendenti del settore privato si è visto rifiutare una una domanda di finanziamento dalle banche o non ha chiesto un prestito semplicemente perché riteneva che il credito non sarebbe stato concesso. Inoltre, una percentuale che va da circa al 9 al 15% dichiara che spenderebbe il 100% del reddito aggiuntivo in consumi.

Quale potrebbe essere l’effetto sui consumi?

Pertanto, se una quota che va dal 6 al 15% dei lavoratori dipendenti anticiperanno il Tfr in busta paga e lo consumeranno interamente, ci si aspetta un impatto totale sui consumi nel 2015 compreso fra i 1,4 e 3,2 miliardi di euro. Questo calcolo suppone un flusso annuale del Tfr di circa 26 miliardi di euro (come recentemente riportato nei dati governativi) e che il Tfr in busta paga sarà sottoposto a tassazione ordinaria con un’aliquota fiscale media del 20% ). Nello scenario meno favorevole però l’impatto della riforma del Tfr sul Pil si fermerebbe a circa lo 0,1% del Pil.

I consumi aumenterebbero di più nel Mezzogiorno o nel resto del Paese?

I dati dell’Indagine della Banca d’Italia indicano anche che è probabile che il maggior incremento dei consumi si verificherà nelle regioni meridionali, dove la percentuale dei dipendenti privati disposti a consumare la totalità del reddito “aggiuntivo” in busta paga è circa il 25%, rispetto a circa il 12% della stessa tipologia di lavoratori nel centro e nel nord del paese. Ciò risulta vero anche tenendo conto del fatto che i lavoratori dipendenti nel settore privato del Mezzogiorno sono molto meno numerosi (circa il 17% della popolazione a fronte del 26% nel Nord e Centro Italia) e dunque che solo circa 5,5 miliardi sul totale dei potenziali 21 miliardi di Tfr anticipato andrebbero ai lavoratori residenti nel Mezzogiorno.

A conti fatti risulterebbe che il Mezzogiorno potrebbe concorrere per circa il 30-40% dell’effetto totale della riforma sui consumi e sul Pil. Questa cifra potrebbe salire ancora se si tenesse in conto di una diversa tassazione media dell’anticipazione del Tfr fra Mezzogiorno e resto d’Italia; infatti il salario medio dei lavoratori dipendenti nel settore privato è di circa 18.800 euro a fronte dei salari medi per il resto d’Italia pari a 26.700 Euro.

E nel lungo periodo?

E’ importante ribadire che l’effetto stimato della riforma del Tfr è unicamente sul livello del Pil nel 2015, quindi l’effetto sulla crescita del Pil si manifesterebbe solo il primo anno di applicazione della riforma, e non negli anni successivi (la legge di stabilità prevede che la scelta sia per tre anni, dal 2015 al 2017). Inoltre, nel lungo periodo altre circostanze potrebbero attenuare o ribaltare tale effetto. Da un lato le imprese e i fondi pensione finanziano con il Tfr una parte del proprio attivo: ad esempio, le imprese possono usarlo per attuare progetti di investimento e i fondi pensione per investire in altre attività finanziarie. Ciò non sarà possibile dopo la riforma, dato che una parte del flusso annuale del Tfr sarà utilizzato invece per finanziare direttamente i consumi. Allo stesso tempo, l’aumento del consumo ridurrà il risparmio privato dei lavoratori, ed in particolare la quota di risparmio a scopi previdenziali, con la conseguenza che gli anziani di domani avranno meno risorse per finanziare i propri consumi.

Tullio Jappelli e Salvatore Morelli

Dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche (DISES) e Centro Studi di Economia e Finanza (CSEF), Università di Napoli Federico II

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