In carcere lo chiamavano “il tatone”, un bambinone. Giacomo, 15 anni appena compiuti, è un adolescente leggermente sovrappeso, di carnagione mulatta, viso e tono di voce effettivamente infantili. Sembra innocuo. E invece è un ladro, e di quelli che non li fermi, che sembra abbiano qualcosa di simile a un buon motivo “dentro”, che da qualche parte li guida verso il reato.

Si chiama criminogenesi, e scoprirla è difficile, è un lavoro. Alcune diagnosi non servono a capire che malattia hai, ma perché certe cose succedono, ad esempio perché Giacomo ruba. E ruba malamente, con pericolosa voluttà. Ogni tanto, quando i suoi genitori si rifiutano di consegnare ciò che pretende, diventa pericoloso, fa paura, spaventa e all’occorrenza alza anche le mani. Oro, gioielli di famiglia, stereo, tv e congegni elettronici, qualunque cosa. Una volta, di notte, al buio, si è appostato vicino al letto dei genitori e li ha svegliati. Aveva in mano un coltello, e ha chiesto soldi. E’ stata la madre a fare scattare la denuncia. Lei insegna in un asilo nido di Padova, lui ha una laurea in giurisprudenza nel cassetto e gestisce un locale amato dagli studenti. Il padre ha i modi diretti e cortesi di chi è abituato ad avere a che fare con il pubblico, ti guarda dritto negli occhi, e, al primo incontro negli uffici del Tribunale, senza vergogna e con voce monocorde, afferma: “Giacomo è disumano”.

Quando un genitore non riesce più a gestire l’adolescenza di un figlio passa attraverso diverse fasi, come nell’elaborazione di un lutto. La quotidianità di queste sfortunate famiglie è segnata da conflitti senza fine, tavole rovesciate, grida, minacce. Infine, la resa. Se ne esce, da simili battaglie, provati, infangati, stanchi. E pieni di livore per quello che prometteva di essere figlio ed è invece diventato un nemico.

Giacomo aveva già due anni quando i suoi genitori adottano il fratello minore. I genitori non lo volevano, ma le buone suorine indiane, mosse certo da intenzioni lodevoli riescono a convincere la coppia a “prenderne due”. Altri tempi, luoghi lontani, modalità non certo ortodosse, certo. A loro, però, già allora sembrava di vedere qualcosa che non andava in Giacomo: “come l’abbiamo visto muoversi, abbiamo capito”. Cosa? Non è chiaro, ma Giacomo, nemmeno a dirlo, arriva in Italia e dà problemi. Una storia come tante. Oggi forse si parlerebbe di ADDH, riceverebbe una diagnosi e una cura farmacologica. Allora, Giacomo dice (ma sarà vero?) che fin dai tempi della scuola elementare, come punizione, i genitori e saltuariamente gli insegnanti lo colpivano “con pugni, sulla schiena e sulla pancia”.

Ma è alle medie che Giacomo diviene ingestibile. Il gruppo è la sua nuova famiglia. Giacomo è insofferente, vuole solo parlare, scherzare, divertirsi. Di notte non dorme, la sua insonnia si fa fastidiosa e resistentissima, sudaticcia e ansiosa. E’ il buio, dice, è la solitudine. Inizia a fare lunghe, lunghissime telefonate notturne con cui riempie le ore della notte; e le sue chiamate imprevedibili e abusive diventano e rimangono ambite e apprezzatissime dal “suo” pubblico di amici e, soprattutto, amiche.

Anche i furti iniziano in quel periodo. E’ un desiderio estemporaneo, il suo, breve e lieve, del tutto privo di freni. Ruba un po’ per vendetta e moltissimo per cercare nel valore degli oggetti qualcosa di importante, qualcosa che conta, un dono, un segno. Ruba soprattutto telefoni, per parlare, per stare vicino agli altri.

Quando Giacomo viene colto in flagrante è il momento più difficile: “Parliamoci chiaro” – esordisce- “io so cosa dicono di me, cosa dicono che ho fatto. Voglio subito sapere: lei pensa che io sia colpevole? Perché se è così me ne vado”.

Ecco, ci siamo, penso, posso stare solo da una parte o dall’altra della barricata: o con lui, o contro di lui. E’ infatti indispensabile a Giacomo sapere se uno è un amico o un nemico, come i docenti delle scuole, gli educatori, e, primi fra tutti, i genitori. Dimissionari, affaticati, non ce l’hanno fatta. E per lui il mondo si è scisso, e lui con esso. Voglio sapere da che parte stai, così, se sei un nemico posso renderti la vita impossibile, essere disumano. Se invece resti, se decidi di credere alla mia innocenza allora sarai per sempre complice, se crederai a me contro la realtà che dice altro, ricambierò con un appoggio infantile, sembrerò il bambino bisognoso che in parte sono. E’ un sogno, un episodio onirico. Eppure, quando Giacomo ruba, è quello che succede, è come se mettesse il mondo intero alla prova, chiedendo comprensione illimitata. Cerca in un certo senso, nella prova estrema il senso dell’amore come fusione, il legame del bambino con la madre, che non ha limiti, neppure quello della distanza tra bene e male.

A Giacomo non serve un carcere, ne uscirebbe identico a prima. Servirebbe sul piano simbolico qualcosa di simile a una madre postuma, che fuori da qualunque tempo regolamentare lo ri-adotti, ci riprovi, contenga i suoi impulsi e gli fornisca un luogo e un tempo dove riprovare a vivere una parte dell’esperienza di bambino piccolo, deprivato e bisognoso. Dove essere senza vergogna un po’ tatone, per il tempo che serve. Questo si dovrebbe fare e qualche volta si fa.

Nel caso di Giacomo si è fatto. E ha funzionato, almeno per ora.

Articolo Precedente

Genitorialità: è il ‘mammo’ la nuova figura materna?

next
Articolo Successivo

Diritto alla proprietà intellettuale: anche i giochi hanno un autore

next