Sono passati i bei tempi di Kevin Rudd, il primo ministro australiano che parlava correntemente mandarino e aveva perfino un nome cinese: Lu Kewen. Canberra negli ultimi anni è sembrata adottare con Pechino una posizione da “frienemy” appiattita su quella Usa, prima con Julia Gillard – già fautrice di un “golpe interno” contro Rudd – e poi con Tony Abbott. Di recente, l’Australia ha per esempio detto “no grazie” al progetto cinese di una Asian Infrastructure Bank, il terzo istituto di credito sovranazionale che, con la Banca Mondiale (a guida Usa) e la Asian Development Bank (a guida giapponese) dovrebbe mettere soldi nel motore del continente. Pare che a Washington non piacesse.

Abbott, al recente summit Apec di Pechino, ha addirittura rischiato di far perdere la faccia al munifico ospite Xi Jinping, promettendo di prendere Vladimir Putin a male parole per via dell’aereo malese carico di australiani abbattuto sui cieli ucraini (non si sa ancora da chi). Niente di tutto ciò: sorrisi e pacche sulle spalle. Punto. Fine. Il fatto è che l’Australia è, tra le economie sviluppate, la più Cina-dipendente del mondo. Le esportazioni verso il Celeste Impero rappresentano il 5,3 per cento del suo prodotto interno lordo e un dollaro su tre del suo export lo guadagna oltre Muraglia, mentre il 20 per cento delle proprie importazioni arriva proprio da lì. Il commercio bilaterale ha totalizzato 132 miliardi di dollari nel 2013: materie prime in direzione nord, prodotti manufatti in direzione sud.

Ed ecco la schizofrenia: da una parte gli Usa, che tirano per la giacchetta il primo ministro aussie di turno, dall’altro gli interessi concreti che portano a guardare in direzione Pechino. Se la terra dei canguri resta politicamente e strategicamente un avamposto Usa nel Pacifico, il G20 che sta ospitando ha offerto la possibilità di firmare un trattato di libero scambio con la Cina che probabilmente andrà ben al di là dell’attuale, fitto, commercio di materie prime. La vicina Nuova Zelanda l’ha preceduta nel 2008 e nei 12 mesi intercorsi da giugno 2013 le sue esportazioni verso la Cina sono aumentate del 26 per cento.

Si moltiplicano quindi, in questi giorni, gli appelli di accademici e businessmen a non subire più, ma a rendere offensiva la propria posizione a metà del guado. Per esempio, l’Australia si trova nella posizione più unica che rara di poter divenire partner di tutti i trattati di libero scambio di cui si sta discutendo: il TPP Usa, il RCEP che vogliono i Paesi Asean, il FTAAP made in China. E nessuno se la legherebbe al dito. Ma non è solo un fatto economico, bensì anche politico. Canberra non ha conflitti latenti o espliciti con le altre nazioni dell’Asia-Pacifico, può essere quindi un mediatore in quell’area di mondo. È anche un membro importante del G20, organizzazione in cui la Cina si trova molto più a suo agio rispetto al G8 (per non parlare del G2 che avrebbe voluto Washington, proposta che Pechino ha rispedito al mittente) e a Pechino è vista quindi come un partner “naturale”. Non è un caso che, nelle sue peregrinazioni, il presidente Xi Jinping abbia già visitato tutti gli Stati del Commonwealth australiano, tranne la Tasmania. Insomma, Canberra può divenire l’ago della bilancia in quell’area di mondo e il naturale facilitatore dei rapporti tra Cina e Occidente.

Secondo Kerry Brown, professore di studi cinesi all’Università di Sidney, l’Australia dovrebbe affrancarsi parzialmente dalla tutela di Washington in politica estera. Altrimenti, “le vecchie volpi della diplomazia cinese potrebbero dire al presidente Xi Jinping che se vuole conoscere le politiche australiane nei confronti della Cina, può tranquillamente tagliare fuori l’intermediario e rivolgersi direttamente al Dipartimento di Stato Usa”.

di Gabriele Battaglia

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