internetOltre 165 mila richieste relative ad oltre 550 mila pagine web, in poco più di 5 mesi, in Europa. Quasi 13 mila richieste relative ad oltre 44 mila url, solo in Italia mentre sono addirittura oltre 32 mila per quasi 100 mila pagine web quelle provenienti dalla Francia.

Sono questi i numeri, da poco pubblicati da Google nell’ambito del suo “transparency report”, relativi alle richieste di disindicizzazione ricevute a seguito della decisione con la quale la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito che chiunque possa chiedere al gestore di un motore di ricerca di rimuovere ogni link tra il proprio nome ed una determinata pagina web se tale associazione lede, in qualche modo, la sua privacy.

E i numeri pubblicati da Google, raccontano che la più parte delle richieste di disindicizzazione, sin qui, sono state rispedite al mittente ovvero rigettate.

E’ accaduto, a guardare ai dati complessivi europei quasi nel 60% dei casi. Ma è l’Italia il Paese in cui Google sembrerebbe essersi visto costretto a rispondere “no” il maggior numero di volte davanti alle richieste di disindicizzazione. Nel nostro Paese, infatti, le richieste respinte sono addirittura oltre il 75% contro percentuali che non superano il 65% in Spagna e Gran Bretagna e non arrivano neppure al 50% in Germania e Francia. Percentuali di rigetto delle richieste di disindicizzazione alte come quelle italiane – ma comunque inferiori – si registrano solo in Bulgaria, Grecia e Lettonia.

Assumendo che i parametri sin qui adottati da Google per valutare quali richieste accogliere e quali rigettare siano omogenee, il dato è significativo perché indica che, nel nostro Paese, siamo meno tolleranti rispetto al resto d’Europa rispetto a chi scrive e parla male di noi e stiamo provando ad approfittare dell’occasione per accorciare la memoria della Rete anche quando, forse, non ce lo meritiamo o non sarebbe opportuno.

Certo, qualcuno potrebbe obiettare che valutazioni di questo tipo non possono farsi sulla base delle decisioni assunte da una Corporation americana sulla base di regole e criteri autonomamente elaborati e discrezionalmente applicati. Una valutazione di questo tipo meriterebbe di essere fatta analizzando le decisioni dei Giudici o delle Autorità competenti, pronunciate in applicazione di una quadro di regole omogenee approvate all’Unione Europea, dai Parlamenti e dai Governi. E sarebbe un’obiezione condivisibile.

Ma guai a dimenticare che non è stato Big G a decidere di mettersi a fare l’arbitro della memoria collettiva europea ma la Corte di giustizia dell’Unione europea a ordinargli di giocare questo ruolo.

Ed ora, quindi, ci si ritrova spettatori passivi di decisioni assunte da una società commerciale che legittimamente agisce secondo le regole del mercato e quelle del profitto.

E, anzi, è confortante che il numero delle richieste di disindicizzazione sin qui rigettate da Google sia superiore a quello delle richieste accolte perché, la logica della massimizzazione del profitto e della minimizzazione del rischio avrebbe, probabilmente, suggerito un approccio diverso in nome del quale, nel dubbio, meglio rimuovere che correre il rischio di ritrovarsi davanti ad un Authority o ad un giudice a rispondere di aver violato l’altrui privacy.

E, invece, Big G, nel dubbio, ha, per ora, scelto di continuare ad indicizzare in forza di criteri che sono, probabilmente, un misto di etica degli affari, buon senso, regole europee e, naturalmente, strategia lobbistica internazionale per far capire all’Europa quanto complesso sia decidere quali informazioni devono continuare ad essere indicizzate quali no.

Ma, intanto, oltre 60 mila storie in tutta Europa – ovvero poco più del 40% delle richieste ricevute da Google – sono state, per sempre sganciate dai nomi dei loro protagonisti e, così, nascoste, alla conoscenza dei cittadini, dei giornalisti e degli storici.

Sarà stato sempre giusto così?

Si può davvero essere sicuri, sulla sola base di una valutazione fatta da una Corporation, che nessuna delle migliaia di storie italiane ed europee sottratte all’indicizzazione e, quindi, nella sostanza, alla conoscenza e memoria collettiva, meritasse di continuare ad essere accessibile perché socialmente e democraticamente utile o, addirittura, essenziale come lo è sempre la buona informazione?

E come si fa ad accettare che un patrimonio informativo di questo genere è stato condannato, in pochi click e per sempre, all’oblio senza che nessuno possa lamentarne la scomparsa – magari prematura – davanti ad un giudice, perché nessuno di noi ha un diritto all’indicizzazione da far valere nei confronti di Google, davanti a qualsivoglia giudice europeo ed in forza di una qualsiasi legge del vecchio continente?

Forse, tra qualche mese, quando i numeri dell’oblio si saranno moltiplicati e storie cancellate dalla memoria collettiva saranno centinaia di migliaia, qualcuno inizierà a capire che lasciare dei soggetti privati, soli a decidere della memoria collettiva e dell’oblio è stato un errore mascherato da vittoria e che si è gioito per una sconfitta.

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