I commenti all’ultimo post mi danno occasione di tornare su The Plant, il vecchio magazzino alla periferia di Chicago oggi destinato alla produzione di cibo fresco, per provare ad approfondire alcuni punti.

L’esperienza di Chicago che ho riportato ha delle caratteristiche dipendenti dal fatto che quell’area geografica per almeno un terzo dell’anno è molto fredda, dunque la coltivazione indoor è l’unica soluzione per avere cibi freschi con il minimo trasporto.

Alle nostre latitudini i prodotti potrebbero essere fiori, funghi, vegetali fuori stagione o altri ancora, magari legati ai saperi materiali dei luoghi, che gli specialisti potrebbero individuare come ottimali. I metodi utilizzati certo possono confliggere con i valori, simbolici e non solo, di chi pensa ad un rapporto con la terra e i suoi frutti non mediato dalle tecnologie. Ma bisogna anche dire che questo tipo di ricerche, condotte pionieristicamente dal microbiologo della Columbia University Dickson Despommier e che da subito hanno trovato attenzione in architettura, sono nate per affrontare la sovranità alimentare nelle megalopoli contemporanee, una delle problematiche della sostenibilità ad una scala molto grande. Occuparsi del futuro del pianeta probabilmente richiederà nuove visioni, e quindi valori rinnovati anche negli aspetti simbolici, per riscrivere le relazioni dell’uomo con la terra.

Da noi i vantaggi potrebbero essere altri. Se da un lato, non solo nelle periferie urbane ma anche nello spazio rurale esistono innumerevoli manufatti abbandonati, lacerti delle culture contadine italiane, dall’altro le serre, espandendosi sempre di più sui suoli agricoli li occupano in modo spesso invasivo, sfigurando i paesaggi nei quali si situano.

Recuperare manufatti rurali e urbani abbandonati per destinarli alla coltivazione indoor -anche a luce naturale utilizzando coperture trasparenti- potrebbe contribuire a ridurre le serre costruite con teli di plastica, liberando porzioni di suolo per dar vita a nuovi paesaggi rurali, quelli delle agricolture contemporanee, come la permacultura, ad esempio.

Peraltro questo tipo di interventi, ovvero la realizzazione di spazi per la coltivazione indoor, recuperando manufatti degradati dell’architettura rurale e urbana, costituirebbero occasioni per l’architettura contemporanea nel nostro Paese per misurarsi in modo diffuso con i resti materiali della storia e delle tradizioni dell’abitare, spesso parti di un patrimonio letteralmente in via di disfacimento, in diverse regioni.

Con le serre, costruite dai giardinieri inglesi intorno alla metà dell’Ottocento, si aprono molti manuali di storia dell’architettura moderna; oggi, si tratterebbe di innovare quella tipologia, agendo attraverso il recupero, trasformando manufatti abbandonati in spazi per la coltivazione e la trasformazione. Una cultura che non esprime l’architettura del proprio tempo non riflette sul passato, né immagina il futuro.

L’acquaponica, tecnica praticata dall’impresa di Chicago, costituisce un contributo, se pure al momento minimo, alla riduzione dell’impatto sempre più insostenibile della pesca sui mari e, al contempo, può garantire prodotti assolutamente privi di inquinanti, peraltro abbattendo le quantità di acque reflue della normale acquacoltura. È certo poi che le condizioni di allevamento possono essere molto migliorate.

A The Plant le aree esterne non hanno grandi dimensioni. Ma forse proprio per questo la destinazione migliore, più che quella produttiva, è quella educativa, divulgativa di nuove relazioni tra l’uomo e la terra.

The Plant a Chicago è un’iniziativa di alcuni imprenditori che costantemente valutano i costi in rapporto ai benefici. Anzi il gruppo, fondando la compagnia Bubbly Dynamics, ha dato vita ad un’altra esperienza imprenditoriale di grande interesse il Chicago Sustainable Manufacturing Center, una sorta di centro per l’artigianato contemporaneo, ancora una volta lavorando molto concretamente sul tema della sostenibilità.

In questo caso, sul quale vorrei tornare, la stessa riqualificazione dell’edificio che ospita il Centro è diventato un campo di sperimentazione sulla costruzione che impiega materiali di recupero per la realizzazione di spazi nuovi.

John Edel, Executive Director di The Plant lo scorso anno è stato invitato a tenere una conferenza allo Yale Entrepreneurial Institute, centro per l’innovazione dell’impresa dell’Università di Yale, una delle più prestigiose degli Stati Uniti. Evidentemente le esperienze a cui sta dando vita, che inquadrano l’economia in una visione complessiva della vita urbana contemporanea, interessano non più solamente la nicchia alternative della società statunitense.

Infine volevo ribadire che esperienze di questo tipo possono risultare davvero interessanti in vista della ricostruzione dei paesaggi. Una “grande opera” che non può che essere prodotto di tante azioni di scala, tipo e natura diverse, a seconda delle situazioni che devono andare a ricostruire. E coniugare il recupero di manufatti e spazi aperti, anche ma non solo attraverso l’agricoltura, con l’intervento nel sociale certamente sta dando e continuerà a dare risultati di grande efficacia.

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