Fummo contagiati da un entusiasmo irrefrenabile, quel giovedì sera del 9 novembre di venticinque anni fa, mentre sui teleschermi scorrevano le incredibili e straordinarie immagini in diretta dalla Porta di Brandeburgo: migliaia di abitanti di Berlino est stavano passando in massa dall’altra parte del Muro – la fuga di un popolo dall’incubo – gli implacabili e truci Vopos che presidiavano la barriera di cemento non ebbero l’ordine di fermare la folla e di sparare, anzi, non ebbero alcun ordine e quindi non si opposero alla marea incalzante della gente che cantava, ballava, piangeva, rideva, si abbracciava via via che si avvicinava ai valichi proibiti, e quando un tenente colonnello gridò ai poliziotti più riluttanti di aprirli, essi lo fecero, e allora noi pensammo che finalmente i berlinesi stavano seppellendo un’epoca di grandi sofferenze e traumi ideologici, e che una nuova era sarebbe cominciata. Stavamo vivendo un evento irripetibile, eravamo consapevoli che la Storia stava sterzando dalla parte giusta. La fine del mondo diviso in due, la morte della Guerra Fredda, la vittoria della libertà e della democrazia sulla dittatura, sull’economia pianificata e sul comunismo sembravano premesse di tante promesse. Nel cuore di ognuno di noi ripigliava vigore l’illusione di un nuovo progresso dell’umanità, il sogno di una pace perpetua, il trionfo finalmente del cosmopolitismo, ma non quello predicato da Mosca. L’Europa – ma che dico? il mondo intero – ripartiva da quella notte che pareva non diventare più mattino, un mattino che nel nostro immaginario avrebbe dovuto essere l’alba del futuro. Godemmo la “rivoluzione” pacifica, la grande festa della liberazione. Avremmo giurato che sarebbe sorta, dalle rovine del Mauer un’Europa più forte, più grande, più ricca. Più. Invece.

Invece, il futuro rimase terribilmente presente. Oh, è vero: la Germania si riunificò, undici mesi dopo. Il Muro si sbriciolò molto prima: ne rimase in piedi qualche frammento, monito di un passato lugubre e doloroso. L’Urss si sgretolò nel 1991, dissolta nella sua drammatica involuzione e fallimento. Alla fine del mitico 1989 l’Europa “istituita” non era più l’Europa carolingia dei Sei, nata col patto di Roma. Nel 1973 aveva accolto la Gran Bretagna, la Danimarca e l’Irlanda. Nel 1981 era stata la volta della Grecia, nel 1986 si erano aggiunte Spagna e Portogallo. Nel 1995 integrò Svezia, Finlandia ed Austria, prima di impegnarsi in un processo di allargamento ad Est. Che però significò anche un analogo ampliamento della Nato, fin verso i confini dell’ex Unione Sovietica, in alcuni casi “dentro” il vecchio impero del Male, ossia le repubbliche baltiche che si erano subito staccate da Mosca. Un’azione progressiva incoraggiata dagli Stati Uniti, da Londra, dalla stessa Germania che cominciò così a tornare egemone nel Vecchio Continente, spezzando equilibri e suscitando antiche inquietudini, mai sopite diffidenze…

L’allargamento dell’unione europea – uso apposta le iniziali minuscole di un progetto geopolitico maiuscolo – era ed è ancora il frutto di un lungo processo di preparazione interna che potrei riassumere in pochi essenziali punti: a) la decisione di creare una moneta unica, nata dalla volontà di francesi e tedeschi a Maastricht, col Patto di Stabilità e di Crescita del 1997 (altro evento “epocale” che la generazione del 1989 interpretò come conferma delle sue speranze); b) il consolidamento del quadro istituzionale dell’Unione (la maiuscola, stavolta, per distinguere l’entità politica), grazie al trattato costituzionale elaborato tra il 2002 e il 2004 da cui sbocciò poi il “trattato semplificato” di Lisbona entrato in vigore nel 2009; c) la crescita delle capacità dell’Unione in materia di politica estera con l’istituzione specifica di un Alto Rappresentante (trattato di Amsterdam del 1997); il successivo passo di una politica europea comune in fatto di sicurezza e difesa, sollecitato e preceduto da un intesa franco-britannica nel 1998; l’unificazione delle questioni giuridiche e degli “affari interni”, previste sia dal trattato di Amsterdam che da quello di Lisbona; infine, dopo decenni di diatribe e guerricciole, l’accordo franco-tedesco per salvare la politica agricola comune e finanziare l’Europa a 27, nel 2002. Grosso modo, l’Europa pigliava forza ideale dalla caduta del Muro e dalla scomparsa dell’Urss per consolidarsi sia sul delicato fronte delle istituzioni che su quello assai più complicato delle politiche comuni e del loro finanziamento, dunque – era la collettiva speranza dei popoli d’Europa – delle sue capacità di azione. L’homo europeus si sentiva ormai in grado di competere con gli Stati Uniti e di affrontare qualsiasi crisi, consapevole di una forza e una volontà più comune che comunitaria.Invece.

Invece l’Europa si trovò ad affrontare situazioni drammatiche e destabilizzanti. La disintegrazione della Cortina di Ferro e la Caduta del Muro cioè del comunismo fece scoppiare conflitti spaventosi all’interno dell’Europa che prima stava sotto il giogo di Mosca. I regimi comunisti furono travolti dalla frammentazione dei nazionalismi (la Jugoslavia in primis) e gli Europei mostrarono le prime crepe del loro tanto ambizioso quanto traballante edificio unitario, intervenendo in ordine sparso. Fu necessario l’intervento risolutore di Washington e della Nato (a partire dal 1993) per costringere la Serbia, in posizione di superiorità militare, a negoziare, ma dopo atroci massacri e vergognosi comportamenti (penso al Dutchbat, i caschi blu olandesi che non impedirono il macello di Srebenica e non difesero, come avrebbero dovuto, i civili: persero brutalmente la vita 8372 musulmani. Il tribunale dell’Aja ha condannato l’Olanda quale responsabile civile). Genocidio, pulizia etnica, crimini di guerra spazzarono via illusioni e ci risvegliarono dai sogni di gloria del dopo-Muro. L’assedio di Sarajevo, il Kosovo, gli accordi imperfetti di Dayton del 1995, i sussulti repressivi di Belgrado…il decennio successivo alla caduta del Muro di Berlino mise a nudo l’Unione Europea e i suoi non sempre limpidi giochi di potere economico. Scoprimmo che la politica era avvolta da una camicia di forza globalizzata. Entravano in campo entità “periferiche” che avrebbero scombussolato il quadro internazionale: la Cina, l’India, la nuova Russia dal finto liberalismo che sarebbe diventato regime autoritario putiniano, il terrorismo islamico, l’attacco delle Due Torri l’11 settembre del 2001, le guerre del Golfo, le Intifada, il tonfo di un capitalismo esasperato dalla rapacità della finanza e dalla speculazione incontrollata che ci fece ruzzolare dallo sgabello sul quale pensavamo di stare al sicuro, la dipendenza energetica europea che esalta il neoimperialismo aggressivo del Cremlino: la guerra contro la Georgia, l’annessione della Crimea, il fondato sospetto che Mosca finanzi la destra razzista e xenofoba per sabotare Bruxelles.

Di certo, viviamo ancora tempi bui: i rigurgiti neonazisti trovano consensi tra chi subisce le conseguenze più nefaste della depressione economica o chi vorrebbe il proprio Paese fuori dall’Euro. L’ascesa vertiginosa di populismo e demagogia in tutto il Vecchio Continente, figlia della paura e sorella di un euroscetticismo alimentato dalla favola del declino continentale. Certo, è vero che non siamo più il centro dell’economia mondiale ma solo uno dei poli regionali, ma questo vale egualmente per gli Stati Uniti o l’Asia in rapido sviluppo. E‘ vero che la nostra cara vecchia Europa non è più il paradiso esclusivo della modernità tecnologica (ma già prima del Muro questo primato apparteneva a Usa e Giappone). E‘ vero che anche sul territorio intellettuale ed artistico non siamo più i migliori. Ed è assolutamente vero che ormai l’Europa – allargata alle 47 nazioni rappresentate nel Consiglio d’Europa – coi suoi 800 milioni di abitanti non è che il 12 per cento, forse meno, della popolazione globale. Gli europei invecchiano più degli altri. Ma invecchiano, a mio parere, comunque meglio. Siamo diventati terra d’immigrazione, come nei secoli del Medio Evo eravamo terra d’invasioni. La demografia ci punisce. Nel 2060 avremo un vecchio per ogni persona compresa tra i 15 e i 60 anni. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale al 1975, l’Europa aveva vissuto l’effervescente epopea del “pane bianco”, dei “Trenta Gloriosi”, gli anni del boom e del benessere. Oggi, siamo all’inizio di un lungo periodo di vacche magre.

Eppure, l’Europa è ancora forte. E potrebbe esserlo di più. Il tanto deprecato Euro rappresenta più di un quarto delle riserve di scambio monetario, seconda valuta dopo l’onnipotente dollaro (che copre il 60 per cento). L’Europa vale il 25 per cento del Pil mondiale e il 20 per cento del commercio globale. Le destre becere abbaiano contro l’Europa. Per forza: la casa comune comunque cerca di difendere quei valori che fascismo, totalitarismo e regimi autoritari odiano: democrazia, diritti dell’uomo, pace, lotta alla povertà e alla sopraffazione. Certo, è fallita la visione di un’economia orchestrata dalla finanza, meglio (o peggio) dalle finanze. Certo, la supremazia tedesca evoca altre luttuose supremazie. Certo, un’Europa forte e libera e culturalmente identitaria non piace ai suoi concorrenti, anche se travestiti da “amici”. Così, quel simbolico evento del 9 novembre del 1989 viene circoscritto, ridimensionato, addirittura irriso. Senti dire, ormai: vi siete illusi il giorno che cadde il Muro di Berlino. Guardate, quanti muri ci sono in giro, anche nella vostra amata Europa? Circola una cinica vignetta, pubblicata su un giornale americano, a proposito dell’anniversario di oggi: si vede una casa a due piani. Al primo si festeggia la caduta del Muro di Berlino. Al secondo, la costruzione del muro in Ucraina.

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