La morale kantiana è libera dal concetto prestabilito di «bene» e svincolata dalle passioni umane. È una morale formale, aderente alla struttura della ragione, razionalmente emancipata: libera da ipoteche teologiche, non – finalmente – umana, troppo umana». Questo secondo la tradizione.

Il canone, però, è anche un cannone che distrugge il pensiero: ignorando gli autori o neutralizzandoli con comodi scranni nel pantheon. L’etereo, l’angelicato Kant è piuttosto un radicale, un rivoluzionario, un pensatore dinamitardo che rende possibile l’inserimento della pulsione nell’indeterminatezza formale della morale.

copertina-KantKant non dice cosa sia il dovere, ma parla della forma che il dovere deve possedere. Non vi sono parametri simbolici dati o totem-valori: il soggetto è caricato della responsabilità di scegliere, la soggettività prorompente dilaga dalle fessure di un io dai contorni lacaniani liquidi e imprendibili. Il soggetto kantiano, lungi dall’essere emblema della chiara decisione, si rivela luogo di tensione: l’essere, chiamato alla decisione etica, è problematico perché essenzialmente non-è. Non-è poiché è decentrato rispetto a se stesso: il soggetto è un «bricolage di componenti esteriori», una vita che imita schemi. L’individuo, che dà contenuto alla formale etica kantiana, è un soggetto lacaniano. Il soggetto dell’etica razionale è un selvaggio.

Kant è più scandaloso di Sade: il contemporaneo mostra come lo skandalon – l’eccezione, la pietra che fa cadere l’uomo – sia la moralità, non l’immoralità. La moralità è un ostacolo, dunque biblicamente skandalon. Sade, dal canto suo, è un rigido moralista: la corruzione, il guaito godereccio e la fantasia perversa sono elevati a principi morali incontrovertibili.

Sade è kantiano, mentre Kant è scandaloso.

Alenka Zupančič, Etica del reale, Orthotes, Napoli

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