nonchiaIl passaggio più ficcante del libro-inchiesta di Francesca Caferri, Non chiamatemi straniero, è a pagina 100, laddove uno degli intervistati, Fakir Mohammed, dà una risposta definitiva alla domanda cui è impossibile rispondere: “Cosa sei?” e ribatte con la sua cadenza partenopea: “Cosa sono io? Un tifoso del Napoli: all’università ho il posto di fronte alla curva. Lo stadio lo vedo ogni volta che alzo gli occhi dal quaderno degli appunti e ci vado appena posso.” Fakir, 22 anni di cui gli ultimi 15 spesi nella città di Napoli, è uno dei 993.238 “italiani-non-italiani” (dati del 2011, oggi siamo senza dubbio sopra il milione), vale a dire quelle persone nate in Italia da cittadini stranieri oppure nati all’estero da cittadini stranieri e poi trasferitisi su territorio italiano in tenera età.

Fakir Mohammed è un italiano di oggi, più che di domani: gli manca solo il passaporto per poter certificare la sua napoletanità, la sua italianità. Ma ne ha tutto il resto: la lingua, la cultura, la passione per il cibo mediterraneo, una cadenza regionale, l’istruzione, il senso di fatalità, il senso di frustrazione e la rabbia verso un Paese nel quale le ingiustizie proibite dall’articolo 3 della Costituzione sono visibili tutti i giorni, alla porta di casa tua. Fakir ormai ha anche quell’ironia tutta napoletana introiettata perfino sull’argomento più delicato: cosa sono? Un tifoso del Napoli.

E’ un libro utile e necessario, quello della giornalista di Repubblica Francesca Caferri. Un viaggio tra i giovani immigrati di seconda generazione, figli di famiglie italiane e albanesi, e indiane, ed egiziane, e marocchine, e somale, e cinesi, e bielorusse, e rumene. Famiglie simbolo delle varie ondate migratorie verso il nostro Paese, quando l’Italia dava di sé un’immagine di Eldorado nel resto del mondo. Un libro necessario perché sposta la lente d’ingrandimento su una questione che sarà ricordata sui manuali di Storia del futuro tanto quanto oggi è ricordata la “questione meridionale”. Nessun Paese occidentale può permettersi di lasciare una milionata mal contata di suoi concittadini di fatto in un limbo giuridico. Un non-luogo, dove non si è giuridicamente cittadini italiani, ma nemmeno letteralmente apolidi o stranieri. Un milione di ircocervi, di “italiani-non-italiani”, per i quali sociologi, giornalisti e storici hanno sprecato fin troppe definizioni: “ragazzi ponte”, “generazione Balotelli”, “nuovi Italiani”. Un esercito di comprensibile, condivisibile e giustificato malcontento, destinato prima o poi a far saltare il tappo e a portare anche nelle nostre città quella rivolta delle banliues francesi che nel 2005 abbiamo osservato dallo schermo della televisione.

La legge italiana che regola la materia a oggi è ancora la Legge n° 91 del 5 febbraio 1992, i cui lavori preparatori furono presentati dal Ministro degli affari esteri Giulio Andreotti, il 13 dicembre 1988. Vale a dire, una legge cominciata a scrivere prima della caduta del Muro di Berlino. Approvata nel 1992, ben prima dell’inizio della globalizzazione in cui oggi siamo immersi. Una legge che, giustamente per l’epoca in cui venne pensata, si preoccupava soprattutto di risolvere problemi del passato, come riconoscere la cittadinanza ai figli adottati all’estero da parte di cittadini italiani. Ma una legge che impone di presentare una documentazione impossibile o irrealistica a coloro che ne sono destinatari. Come spiega nel libro la signora Ramos (matriarca di una famiglia di napoletani dalla pelle scura), molti degli aventi diritto “non hanno potuto presentare la domanda. Nella maggior parte dei casi il problema stava nella cosiddetta idoneità abitativa. La legge prevede che i ragazzi debbano dimostrare di aver vissuto in Italia dalla nascita: servirebbero contratti di affitto regolari, certificati di residenza e cose simili, roba quasi impossibile da produrre a Napoli.” (97).

Infatti, chi nasce in Italia da genitori stranieri, oggi può fare domanda di cittadinanza italiana solo al compimento dei 18 anni, la maggiore età. Ma deve dimostrare di essere sempre rimasto sul territorio italiano, cosa che nel mondo di oggi, delle frontiere europee aperte, degli Accordi di Schengen, già si percepisce essere una limitazione sciocca e dannosa, che magari non collide con il comma 2 dell’art. 16 della Costituzione italiana (Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge.) ma collide senza dubbio con il buon senso.

Come ciliegina sulla torta, la Legge 91 del 1992 stabilisce che il diritto di fare domanda per il passaporto italiano scatta al compimento del 18° anno, ma vale solo per 12 mesi. Se per qualunque motivo non si fanno le carte fra i 18 e i 19 anni, si è fottuti per sempre: apolidi a vita, o liberi di trovarsi un’altra cittadinanza. E anche coloro che riescono a far domanda in quei 12 mesi, mettendo insieme documenti non sempre semplici da collezionare come ricordava la signora Ramos, non hanno alcuna certezza riguardo ai tempi burocratici di risposta. Possono passare (e spesso è così) anche tre, quattro, cinque, dieci anni prima di sapere l’esito della propria domanda, che a quel punto sarebbe in realtà il riconoscimento di un diritto civile fondamentale.

Infine, per chi ha avuto la “fortuna-disavventura” di arrivare in Italia in tenera età, la Legge stabilisce che debbano trascorrere dieci anni prima di poter presentare domanda di cittadinanza italiana. Ma in tal caso, spesso, manca un certificato penale del Paese di nascita, magari messo a ferro e fuoco da una guerra civile, che attesti che il Fakir Mohammed della situazione non avesse compiuto crimini fra gli zero e i sette anni, o comunque fra quando è nato e quando è arrivato in Italia.

Caferri al termine del libro chiama questi ragazzi a modo suo: “La meglio gioventù”. A me viene in mente un’immagine diversa: questa è una gioventù di sfortunati, trapiantata o nata in un Paese che prima era ricco e legislativamente arretrato, ma adesso è solo arretrato, anche perché fa di tutto per spingere questa ricchezza di cervelli e di braccia ad andarsene verso posti più civili.

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