Una vita per gli altri. È quella di Esther Madudu, 34 anni, di professione ostetrica in Uganda. Questo paese, come molti altri del continente africano, registra un alto tasso di mortalità delle neomamme e dei loro bimbi a causa di servizi medici e igienici inadeguati: basti pensare che ogni giorno, nell’Africa Sud-Sahariana, circa 400 madri perdono la vita in gravidanza o durante il parto, una media di 1 su 40, contro quella europea e nordamericana di 1 su 4700. Altrettanti sono i neonati che rimangono orfani.

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Il duro lavoro di Esther l’ha portata a essere scelta da Amref (African Medical and Research Foundation) come il simbolo internazionale del difficilissimo impegno quotidiano delle ostetriche africane: è stata infatti candidata al Premio Nobel per la Pace 2015 e ha ricevuto un riconoscimento dal governo ugandese per la sua costante e ardua attività, diventando anche il simbolo della campagna Amref “Mai più senza mamma”, una raccolta fondi volta a formare 200 ostetriche che permetteranno di salvare 100mila donne in due dei paesi più critici, il Mozambico e il Sud Sudan (il numero solidale per donare 2 euro è 45507, fino all’8 novembre 2014).

Costretta a trascurare completamente la propria sfera privata per poter salvare vite umane, tanto che i suoi figli vivono ormai con la nonna, Esther lavora giorno e notte con un’altra collega in un piccolo ospedale della regione di Sorori, l’Atiriri Health Centre IV, con un flusso giornaliero di pazienti in gravidanza che si aggira tra le 35 e le 40 al giorno. Un’attività intensa la sua, resa ancora più impegnativa dalla mancanza di elettricità e di acqua corrente nella struttura. Non di rado, viene allora utilizzata la luce dei telefoni cellulari per assistere le madri, oppure sono le donne stesse che portano con sé le candele, con tutte le difficoltà annesse: far nascere un bambino a lume di candela non è di certo una passeggiata.

Esther è cresciuta con la consapevolezza dell’importanza di un’assistenza adeguata nel delicato momento della venuta al mondo: nata prematura, anche lei deve la sua vita all’azione sapiente di una levatrice tradizionale esperta. La sua vocazione arriva però all’età di dieci anni, quando la nonna, levatrice, le permette di assistere a un parto: «Fu il momento in cui decisi cosa avrei fatto nella mia vita. Quando le comunicai la mia decisione, la nonna mi disse che avrei dovuto allora studiare, per imparare anche ciò che lei non sapeva». E così ha fatto, senza più smettere. Ha conseguito il diploma alla scuola per infermieri, seguito corsi di aggiornamento di Amref e partecipato alla formazione presso il Ntic, il Centro per le Nuove Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione applicate alla salute. Tuttora, nei ritagli di tempo, cerca di tenersi aggiornata attraverso l’e-learning.

Il carico di lavoro però è molto intenso, essendo poche le ostetriche professionali a disposizione: cure prenatali, sostegno psicologico, test di screening dell’Hiv, prevenzione e trattamento della malaria, parti, vaccinazioni, cure post natali, assistenza post aborto sono solo alcune delle attività che segue in prima persona. Tante altre sono invece difficili da seguire con costanza: ad esempio effettuare visite a domicilio per le madri sieropositive, le quali spesso, non seguendo i consigli medici per paura di far sapere agli altri di aver contratto il virus, espongono i bambini a un alto rischio di contrarre l’infezione.

Ad ogni modo, Esther non perde il suo sorriso radioso e va avanti senza tregua: la candidatura al Nobel per la Pace è un’ulteriore spinta a dare il massimo. «Non lo faccio per me in quanto Esther, ma per tutte le donne del Continente», ha raccontato a Africa Top Success. «In Europa nessuno conosce le nostre condizioni di lavoro, né l’ambiente in cui operiamo e tutte le persone a cui racconto la mia storia restano commosse dalla nostra causa. E per questo devo continuare a raccontarla, senza fermarmi mai».

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