Gli stress test sulle banche europee di cui oggi si annunciano al popolo bue i risultati (dopo averli comunicati alle banche così da innescare una vorticosa giostra di insider trading) sono esercizi di una penosa inutilità.

Le banche centrali dovrebbero controllare le banche ogni giorno. I controlli condotti a intervalli di anni sono l’autocertificazione che gli ineffabili regolatori in effetti non controllano alcunché o perché viene loro impedito o perché si rifiutano codardamente. In entrambi i casi queste allegre pagliacciate hanno il solo scopo di giustificare funzione e prebende. Infatti dopo l’ultimo stress test condotto dalle banche centrali europee – che distribuì generosi bollini verdi urbi et orbi (ispirandosi soprattutto agli orbi, ma non quelli terracquei) – collassarono i sistemi bancari di Irlanda, Spagna e Cipro (per non parlare di Montepaschi, Carige e analoghi porcili di cui oggi ci si industria a chiudere gli usci dopo la fuga dei suini).

Anche senza ricorrere agli stress test è noto che quasi tutte le maggiori banche europee, incluse quelle tedesche e inglesi, sono tenute in vita principalmente dalla droga monetaria che assumono a dosi da sollevatore di pesi bulgaro. Infatti basta guardare le esposizioni riportate a bilancio rispetto al capitale. All’uopo basta un terminale Bloomberg o semplicemente un laptop collegato alla rete su cui pazientemente scaricare i bilanci degli istituti di credito.

Tuttavia per chi presta attenzione all’economia reale e non al perenne festival delle baggianate mediatiche, la pubblicazione degli stress test fornisce l’occasione per filtrare i latrati delle opposte canee e porre una questione molto più radicale: sono ancora utili queste antidiluviane vestigia chiamate banche per dare propellente allo sviluppo economico oltre che a dispensare ombrelli nelle giornate di sole? La risposta che leggerete nel resto di questo post è negativa, ma non per i motivi che riempiono le fantasie dei bamboccioni targati Occupy Wall Street.

Oggi l’economia dell’euro area (e a maggior ragione quella italiana) ristagna per mancanza di innovazione, per aridità di capitale di rischio e per un intreccio perverso di regole demenziali che scoraggiano gli investimenti. In particolare un imprenditore che si ostinasse a investire in Italia figurerebbe come un ludopatico alle prese con una congrega di bari.

Per far ripartire l’economia il risparmio andrebbe incanalato non verso i titoli di stato, (investimento che distrugge risorse), e nemmeno verso le imprese decotte o con profitti da prefisso telefonico internazionale, bensì verso i settori innovativi ad alto valore aggiunto, capaci di aggredire i mercati globali. Andrebbero finanziate idee e commercializzazione della ricerca. Purtroppo le banche o qualsiasi  istituzione che eroghi credito (anche quelle gestite in modo impeccabile) sono ontologicamente impossibilitate a svolgere tale funzione e se lo facessero finirebbero in bancarotta. Per spiegarlo ricorro ad un esempio.

L’innovazione è attività oltremodo rischiosa. A voler essere ottimisti su dieci start up cinque falliscono abbastanza presto per motivi vari. Delle rimanenti cinque un paio arrivano al successo (tipo Google o Instagram) mentre ben che vada, tre sopravvivvono stentatamente, magari reinventandosi in corso d’opera. Allora immaginiamo una banca che concedesse un credito di 1 milione di euro a tutte e dieci le start up ad un tasso del 10%. Sulle cinque che presto chiuderebbero i battenti perderebbe cinque milioni (trascuro le rate sul debito che forse le imprese riuscirebbero a pagare prima del collasso), mentre sulle altre che sopravvivono guadagnerebbe 500mila euro all’anno da cui vanno sottratti i costi di gestione e di provvista. Quindi sarebbe solo una questione di tempo prima che la banca esaurisca il capitale e vada in bancarotta a sua volta. Un management eccezionale al massimo potrebbe rallentare l’inevitabile destino.

In sostanza un’architettura finanziaria bancocentrica come quella europea è analoga ad sistema vascolare arteriosclerotico che preso o tardi conduce all’infarto il cuore dell’economia. Soprattutto in una fase come questa, in cui nei settori tradizionali la competizione dei paesi emergenti è inarrestabile, servirebbe un’epocale transizione verso robotica, avionica, biotecnologie, reti, smart cities, energie rinnovabili e tutto quanto dominerà l’economia futura.

Il declino dell’economia europea andrebbe combattuta dando impulso al venture capital. Al contrario delle banche un fondo di venture capital partecipa al capitale sociale e quindi se quelle due aziende su dieci che hanno successo triplicano l’investimento effettuato dal fondo (ipotizziamo sempre un milione a start up) coprono le perdite delle cinque fallite e ottengono un margine di profitto (senza contare le altre tre che comunque qualcosa incamerano).

Ma il venture capital vero, quello che finanzia le iniziative visionarie in Europa è un fenomeno del tutto marginale (con qualche eccezione nel Regno Unito) perché il settore finanziario e il quadro legislativo sono irrimediabilmente arretrati. In Italia una start up che nei primi anni non produce profitti (ma su cui gravano spese di ricerca) viene ispo facto considerata dall’Agenzia delle Entrate una bara fiscale (grazie a Tremonti e Berlusconi) e perseguitata fino all’annientamento. Del resto in Italia i gabellieri sono le guardie del popolo con il compito di educare con maoistica dedizione gli ignobili presuntuosi che invece di pietire un posticino pubblico da precario (prostrandosi dal sindacalista o dal politico di turno) aprono una partita Iva o sventatamente si mettono in testa di fare impresa.

Da quanto illustrato deriva un sommesso appello ai membri del Consiglio Direttivo della Bce: se davvero ci tenete a rimettere in moto il motore della crescita, sarebbe infinitamente più efficace lasciar fallire le banche peggio gestite (e spedire in galera chi avesse commesso reati) e iniettare liquidità direttamente nei fondi di venture capital. Non farebbe male aggiungere qualche risorsa per i fondi che si occupano di aziende da ristrutturare, di aggregazioni societarie e di pulizia dei crediti in sofferenza.

Però andrebbe imposta una condizione ferrea: i fondi di venture capital dovrebbero operare solo nei paesi che nella classifica Doing Business della Banca Mondiale rientrino nelle prime cinquanta posizioni. Tanto per non fare nomi un paese come l’Italia al 90mo posto per facilità di aprire un’impresa, al 112mo posto per la concessione di licenze edilizie, al 138mo posto per la farraginosità del sistema fiscale, e via elencando non dovrebbe ricevere nemmeno un centesimo dalla Bce fino a quando non risolva questi nodi cruciali.

Tale misura eserciterebbe una pressione formidabile su governanti incapaci, delinquenti e sbruffoni e farebbe saltare gli equilibri inconfessabili su cui si regge il loro potere. E con tutta probabilità imprenditori sovvenzionati e finanzieri à la page si produrrebbero in comparsate meno melliflue alla Leopolda, evitando di sommergerci con quelle perle di esercizi retorici che Guccini attribuiva a musici falliti, anime pie, teoreti, Bertoncelli e preti.

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