La primissima inquadratura è kieferiana: una steppa viscosa, striata dai frutici, col cielo, calcareo, che incombe, raschiato dal vento. Poi, subito, subentra la tundra lunare della Cappadocia, coi pinnacoli di tufo che sembrano spumiglie appena infornate, smussate dal tempo e tarlate dall’uomo che ne ha fatto un immenso corrugato termitaio. Il paesaggio, virato al giallastro, con la camera che saliscende tra i cavalloni di roccia, richiama l’Armenia ondulata del Colore della melagrana, anche se a tinte più scialbe.

La casa del Maestro Hamdi, Imām del paese, non può non far pensare alle facciate manieriste che campeggiano in Hakob Hovnatanyan (ancora Paradžanov), il corto sul Raffaello di Tiblisi. Ma i rimandi, intenzionali o forse, e comunque mai sorrentinianamente sbandierati, ci riavvezzano alla storia del cinema che conta. C’è Béla Tarr, coi piani sequenza stirati a sfinimento e le finestre metasceniche che fungono da stratagemmi narrativi (Satantango, ma anche Perdizione), come quando, dalla sala da pranzo, si scorgono Hamdi e il piccolo Ilyas in lontananza, arrancare sulle dune di roccia ben prima di bussare alla porta.

E poi Bergman, per il lavorio, chirurgico, sulle antinomie morali che corrodono la coscienza di ognuno, in un mondo dove non ci sono innocenti e la muta agonia dei personaggi si rivela lentamente, in un crescendo ibseniano, sapientemente costruito, cui manca però la catastrofe finale ‒ come a dire che insofferenze, afasie e risentimenti sono purgatorio quotidiano, l’inevitabile palude in cui ristagna la vita di chiunque e rispetto alla quale nessuna evasione è praticabile.

Infine il teatro, ratio essendi del protagonista ‒ Aydin, ex-attore che s’accinge a scrivere una storia del teatro turco ‒, che agisce come presupposto ambientale, camera narrativa iperbarica che, letteralmente, tiene in pressione l’intero racconto. Il regno d’inverno, infatti, è un film che si svolge nel teatro: Othello è il nome, shakespeariano, dell’albergo in cui è girata gran parte della vicenda; čechoviano, invece, è “l’odore dell’inverno”: la coltre di neve che tutto attutisce, che vanifica ogni aspirazione al riscatto e addormenta l’esistenza in uno strano letargo morale cui ogni gesto lentamente soccombe. E come nelle Tre sorelle anche qui i protagonisti vorrebbero poter cambiare vita, andarsene a Istanbul, immaginando una linea di fuga che viene però inesorabilmente frustrata dalla loro indolenza, dall’indisponibilità ad abbandonare una condizione di privilegio che, seppur morbosa, li rassicura nelle loro sussiegose velleità.

Infine il Caligola di Camus, la cui locandina compare a più riprese alle spalle di Aydin quand’è al lavoro nel proprio studio e che sembra volerci rammentare quanto la sua affettata bontà sia essa stessa una forma narcisistica di tirannia, un potere subdolo, tenacemente esercitato con la violenza ‒ centripeta quanto inappuntabile ‒ della magnanimità. Egli è l’archetipo del conformista compiuto, disilluso rispetto a se stesso e perciò capace di aderire sobriamente al mondo senza mai espellere, nel comportamento, le secrezioni della propria cattiva coscienza (come Cherea nel Caligola, anche Aydin potrebbe replicare alle incriminazioni di moglie e sorella dichiarando: “Io sono […] con la società. Non perché mi piaccia. Ma perché non sono io ad avere il potere, quindi le vostre ipocrisie e le vostre viltà mi danno maggiore protezione ‒ maggiore sicurezza ‒ delle leggi migliori”).

Non guasta la sorpresa della trama richiamare almeno un paio di scene. Mi riferisco anzitutto a un’elegante ripresa dostoevskijana ‒ dall’Idiota, quando Nastàs’ja Filìppovna getta nel fuoco un’ingente somma di denaro (“Lo vedi questo pacco? Dentro ci sono centomila rubli! Adesso io butterò questo pacco tra le fiamme, nel camino, davanti a tutti, e tutti ne saranno testimoni! Non appena le fiamme l’avranno completamente avvolto, tu accostati al camino, però senza guanti, a mani nude e con le maniche rimboccate, e tira fuori il pacco dal fuoco! […] E io contemplerò la tua anima, mentre tu entrerai nel fuoco a prendere i miei soldi”).

Continua

Articolo Precedente

Festival di Roma 2014: Ciruzzo nel paese dei ‘Milionari’

next
Articolo Successivo

Festival Roma, a Tomas Milian premio alla carriera. Soap Opera garbata commedia

next