Mario Draghi ha una costanza formidabile: ripete ogni giorno gli stessi concetti, cambiano le sfumature in modo che i giornali abbiano sempre un titolo fresco. Anche sabato, alla conclusione dei lavori del Fondo monetario internazionale: “La ripresa globale è stata più debole delle attese. La politica monetaria dovrebbe continuare a sostenere la ripresa“. Quattro giorni fa aveva detto: “I governi che non fanno le riforme spariranno”, perché non riusciranno a creare posti di lavoro. Il senso dei richiami di Draghi l’hanno capito anche i sassi: la politica monetaria ha fatto la sua parte, ora tocca ai governi perché stampare denaro non risolve tutto.

Nel 2012 la Bce ha placato i mercati annunciando le operazioni Omt (acquisti illimitati di debito per i Paesi che entrano in un programma di sostegno), poi ha tenuto in piedi il sistema bancario con i prestiti agevolati Ltro (per finanziare l’acquisto di titoli di Stato) e oggi Tltro (per far arrivare prestiti alle imprese). Con discrezione, per non eccedere il mandato della Bce, ha anche indebolito il tasso di cambio per sostenere le esportazioni della zona euro: in un anno la moneta unica ha perso il 7 per cento rispetto al dollaro, soltanto a settembre si è indebolita del 4 per cento.

Che altro può fare la Bce? Poco o nulla, è quasi impossibile che arrivi a lanciare un vero Quantitative easing, cioè l’acquisto di titoli di Stato sul mercato senza condizioni, sarebbe un ribaltamento di strategia. E la Germania non lo permetterà mai. Basta leggere l’ultimo bollettino della Bundesbank, la banca centrale tedesca: le politiche monetarie espansive “possono determinare esagerazioni sul mercato e ridurre l’impegno dei Paesi chiamati a fare le riforme”. Già, le riforme. Nel Documento di economia e finanza sulla base del quale il governo italiano approverà mercoledì l’impianto della legge di stabilità, si legge che le riforme in discussione (lavoro, giustizia, Pubblica amministrazione) non sono poi questa panacea: il loro impatto nel lungo periodo sarà inferiore del 2, 3 per cento rispetto a quanto si sperava quando sono state annunciate.

Anche ammesso che la fantomatica “competitività” si possa davvero ottenere e che i Paesi come l’Italia siano destinati a ritrovare la via di una crescita percebile, quanto fatto finora non basta. Il rischio, però, è che l’equilibrismo tra spinta riformatrice e impegno al risanamento dei conti frani completamente ora che i governi dei Paesi in difficoltà devono decidere quanti sacrifici fare per il 2015. Le leggi di bilancio vanno sottoposte a Bruxelles: la Commissione può approvare mugugnando (come fece lo scorso anno per l’Italia), o bocciare e rimandare al mittente. A quel punto un governo può comunque tirare dritto e rischiare sanzioni, dalla Commissione o dal mercato.

L’Italia ha già chiarito la volontà di ribellarsi: per rispettare il pareggio di bilancio strutturale nel 2016, ha calcolato il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan, servirebbe una manovra correttiva di 0, 8 punti di Pil (12 miliardi) che deprimerebbe la già asfittica crescita dello 0, 3. Se l’Italia volesse rispettare anche la regola sulla riduzione del debito, servirebbe una stangata da 33 miliardi. Draghi sta ripetendo in tutti i modi che i Paesi dell’euro devono usare la flessibilità prevista dai vincoli, ma per spostare il carico fiscale in modo da favorire la crescita (esempio: alzare le aliquote Iva agevolate tagliando l’Irap).

C’è soltanto una condizione, però, in base alla quale la Commissione tollererà il mancato raggiungimento degli obiettivi di bilancio e rinuncerà a pretendere immediati tagli o aumenti fiscali: che la crescita globale sia molto più bassa delle attese. Guarda caso è proprio quello che ripete Draghi. Le parole del banchiere centrale rendono quindi molto più agevole il tentativo di Matteo Renzi e Padoan (ma anche della Francia di François Hollande) di usare l’alibi macroeconomico per evitare di trasformare le leggi di bilancio 2015 in un suicidio contabile.

Il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2014

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