Questa settimana, mentre Renzi passava una mano di bianco sullo statuto dei lavoratori, lasciando la suspense su come abbia intenzione di riverniciarlo, al resto del partito è stata richiesta la fiducia. Intanto Giuliano Poletti illustrava oralmente, come facevano gli aedi nell’Antica Grecia, la riforma del lavoro, in sostituzione di qualsivoglia forma di scrittura, sacra o profana che fosse. Messaggio subliminale: “famo a fidasse”.
 
La fiducia con delega in bianco su un tema annoso come la riforma del lavoro è stato effettivamente il modo più plateale per mettere l’accento su una questione tanto attuale quanto anacronistica: la fedeltà al partito.
 
Quasi tutta la minoranza democratica, fatta eccezione per tre senatori che si sono astenuti, dopo aver espresso la propria contrarietà a molti punti del Jobs Act, a partire dall’abolizione dell’articolo 18, hanno infine votato sì all’incriminata legge delega, in nome di un vincolo ‘morale’ di mandato che induce alla lealtà, o ubbidienza che dir si voglia. 
La fedeltà al partito, nostalgico retaggio di una politica che fu, persiste nel codice d’onore politico e troneggia nell’etica parlamentare democratica.
Le dichiarazioni di Pierluigi Bersani raccontano bene il paradosso di questa fedeltà. «Dove non sono d’accordo lo dico ma non ho bisogno di farmi spiegare la ditta dai neofiti», ha risposto l’ex segretario piccato agli inviti di Renzi a non tradurre la dissidenza verbale in voto negativo e a mantenere l’unità all’interno del Pd. Bersani, cosiccome D’Alema, e tutta la leva politica cresciuta al sole o finanche all’ombra del vecchio Pci, individuano nella disciplina del gruppo un elemento fondamentale per sancire l’appartenenza al partito: un partito inteso come comunità, come un’omogenea entità plurale composta da soggetti diversi tra loro ma che convergono nella macrovisione della realtà, una “ditta”, per tornare al punto.
 
Peccato che applicare all’oggi queste categorie e non rendersi conto della mutazione genetica che ha subito il Pd, negli anni fino a trasformarsi in una sarabanda autoriferita,  quasi priva di matrice ideologica, assente nel mondo reale, richieda delle capacità negazioniste notevoli.
 
Applicare la fedeltà al partito di oggi, equivale a esporre uno scheletro di dinosauro allo zoo. Eppure per la vecchia guardia rinunciare al comandamento della disciplina vorrebbe dire rinnegare la sua stessa identità, dando l’ultimo colpo di spugna alla sinistra che fu. Per questo Bersani rivendica con veemenza come il neofita Renzi non debba certo spiegargli quali sono le regole della ditta: paradosso vuole che in quest’inchino ai voleri del nuovo tiranno, il vecchio Pierluigi senta irrompere la sua primogenitura identitaria e s’illuda di avvertire un ultimo sussulto di dignità politica.
 

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