Il governo non intende mettere la fiducia sul disegno di legge delega sul lavoro. La discussione slitta a martedì 7 e resta in calendario al Senato fino a metà ottobre. “Stiamo ancora ragionando su quello che c’è da fare. Ascoltiamo la discussione e poi decideremo”, ha commentato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Blindare il ddl con la fiducia non è per il momento tra le opzioni e soprattutto si valuta ancora se inserire un emendamento del governo per includere tra i licenziamenti tutelati dall’articolo 18 anche quelli disciplinari (e non solo quelli discriminatori). Ad annunciarlo è stato lo stesso Matteo Renzi in direzione Pd, scatenando le polemiche di Forza Italia. Ma nonostante i problemi, l’esecutivo si dice sereno. “A mio parere”, ha detto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio, “la discussione può procedere serena. Poi su come questa si articolerà deciderà Palazzo Madama”. 

Il presidente del Consiglio ha incassato il sostegno del partito nella direzione di lunedì 30 settembre. La minoranza da giorni critica sul provvedimento si è spaccata, ma continua a esprimere le sue preoccupazioni. “Nel voto finale”, ha commentato l’ex leader Pd Pier Luigi Bersani, “certamente non mancherà la lealtà verso il partito e il governo. Quando voto non ho bisogno di farmi spiegare cosa è una ditta dai neofiti. Prendersela con tutti, con i sindacati, i magistrati, la minoranza del partito e mai una volta con la destra è curioso, perché son dieci anni che governa la destra”. Bersani poi ha difeso il ruolo dei sindacati: “So dov’era il sindacato mentre si creava precariato: a parte qualche burocrate, a metterci davvero la faccia, e non solo la faccia, davanti alle fabbriche e nelle crisi aziendali. Trovo profondamente ingiusto questo schiaffo a chi è sul fronte in una situazione drammatica. Non so come sia andato a letto la sera chi, dopo aver chiuso un accordo, dopo aver preso magari qualche invettiva dai lavoratori, deve ricevere anche ‘l’incoraggiamento’ del presidente del Consiglio”.

Il testo è stato licenziato dalla commissione il 18 settembre scorso e il relatore Maurizio Sacconi (Ncd) ha tenuto la relazione in Aula mercoledì 24 settembre. “Il governo”, ha detto la presidente dei senatori Sel Loredana De Petris, “non ha parlato di fiducia e nemmeno di un eventuale emendamento. Anzi, quando si profilava la possibilità di un contingentamento dei tempi, l’esecutivo ha fatto capire che non c’è fretta”. L’inizio del voto sugli emendamenti in Assemblea è atteso per martedì prossimo.

Chi pone paletti è anche la minoranza democratica. “Un semplice ordine del giorno è insufficiente. Già la legge delega è generica, così sarebbe troppo”, ha detto Federico Fornaro, senatore della minoranza tra i firmatari dei 7 emendamenti alla delega, parlando sull’ipotesi che il governo non presenti un emendamento che recepisca il documento della Direzione del Pd. “Indubbiamente c’è tensione dopo l’uscita. Francamente che l’Ncd ponga un veto su un emendamento del governo è inaccettabile. Per noi è normale dialettica parlamentare aver presentato degli emendamenti, per proporli al confronto. Non vogliamo porre degli ‘aut aut’ al governo, e capiamo che anche la posizione dell’Ncd fa parte di questa dialettica. Ma come c’è l’Ncd c’è anche il Pd”.

In mattinata il capogruppo di Forza Italia a Montecitorio Renato Brunetta ha minacciato Matteo Renzi di non votare il provvedimento se fosse inserito l’emendamento sui licenziamenti disciplinari. “Se il premier”, ha detto a SkyTg24, “per tenere insieme il suo partito, fa marcia indietro noi non potremo fare altro che votare contro e denunciare questo imbroglio. Sacconi non potrà non dimettersi. Perché con l’ordine del giorno approvato dalla direzione, cioè con l’aggiunta ai licenziamenti discriminatori di quelli disciplinari, siamo tornati alla legge Fornero, quindi non è cambiato nulla. Questa ipotesi cambia completamente il quadro: se il testo della Commissione fosse stravolto, Sacconi si dovrebbe dimettere. E questo porrà un problema di maggioranza perché il Nuovo Centrodestra è componente essenziale della maggioranza. Il problema non è solo italiano, perché la riforma del lavoro l’aveva chiesta la Banca centrale europea, l’aveva chiesta l’Europa”.

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