“Il nostro sistema, con le casse integrazioni speciali e in deroga, è sbagliato, perché permette di continuare la finzione che aziende esistano ancora quando invece hanno chiuso e sono decotte“. Parola di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria. L’intervento dei giorni scorsi del leader degli imprenditori è arrivato proprio nel momento di massima tensione nel dibattito sul Jobs Act.

E ha toccato un tema non secondario rispetto alle potenziali ripercussioni della riforma: tra i primi beneficiari di una cancellazione dell’articolo 18 e degli ammortizzatori sociali ci potrebbero essere proprio le aziende di cui parla Squinzi. Certo non il prototipo di potenziali rilanciatori dell’economia nazionale. Tanto più che la riforma del lavoro del governo Renzi prevede la cancellazione della stessa cassa integrazione. Un “fenomeno” che riguarda 1,5 milioni di persone l’anno, in aggiunta ai 3,2 milioni di disoccupati (di cui 700mila giovani) e 160 tavoli aperti al ministero dello Sviluppo economico con oltre 150mila dipendenti coinvolti. “Credo che nella legge di Stabilità 2015 avremo le risorse per ampliare la gamma degli ammortizzatori sociali riducendone il numero e le dimensioni”, ha spiegato il premier Matteo Renzi nel suo ultimo discorso alla Camera. “Dobbiamo far sì che non ci siano più gli strumenti della cassa integrazione ma uno strumento uguale per tutti”. Ma una stretta sulla cig causerebbe un esodo di cassintegrati verso la poco felice meta della disoccupazione. Il governo si dice pronto a mettere sul piatto una somma tra 1,5 e 2 miliardi per finanziare l’operazione. Ma basteranno?

Nel 2013 per cig ordinaria, straordinaria e in deroga spesi 6,7 miliardi – A guardare gli attuali numeri della cassa integrazione, non si direbbe: nel 2013, per questo ammortizzatore sociale, nelle sue varie tipologie, sono stati spesi 6,7 miliardi di euro. Si tratta, peraltro, di una cifra in costante aumento: due anni prima, la spesa si fermava a “soli” 5 miliardi di euro. Per capire meglio queste cifre, bisogna fare un passo indietro e chiarire in quali casi è previsto il ricorso alla cassa integrazione. Quella ordinaria viene in soccorso delle aziende che devono affrontare una situazione di difficoltà temporanea ed è pagata con un fondo creato dai contributi versati dalle aziende. La cassa straordinaria, finanziata prevalentemente dallo Stato, scatta nei casi di crisi strutturale o di prolungamento della cig ordinaria. Il ricorso alla cassa in deroga, invece, è riservato ai casi non coperti dalle altre forme di cassa: a metterci i soldi sono le istituzioni, Stato e Regioni.

Passando nelle liste dei disoccupati i lavoratori in cig costerebbero di più – L’ultimo dato relativo a cig straordinaria e in deroga, in particolare, parla di una spesa pari rispettivamente a 3,5 e 1,3 miliardi di euro. Se, raccogliendo l’invito di Squinzi, il governo procedesse a superare queste tipologie di cassa integrazione, una parte degli attuali destinatari, i dipendenti delle aziende “chiuse e decotte”, andrebbe a ingrossare le fila dei senza lavoro. E quanti si iscrivessero alle liste dei disoccupati se avessero diritto al sussidio, per le casse dell’Inps avrebbero un costo maggiore rispetto a un cassintegrato. Infatti, se l’indennità di disoccupazione per il 2014 non può superare i 900 euro netti, la cassa integrazione si ferma a un massimo di circa 700 euro per chi guadagna meno di 1.600 euro al mese e 850 euro per chi ne guadagna di più.

No alle integrazioni salariali per la cessazione di attività – Una maggiore spesa per i nuovi disoccupati in arrivo dalla cig, dunque, ma non solo. Ad aumentare la platea dei senza lavoro contribuirà anche la tanto discussa riforma dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Nella legge delega approvata in commissione Lavoro al Senato, infatti, si parla di un contratto a tutele crescenti che permetterà alle imprese di licenziare i neoassunti senza rischiare di essere condannate a reintegrarli. Nella battaglia sul terreno dell’articolo 18, che vede su fronti opposti la Cgil e il premier Renzi, non è in palio solo un “totem ideologico” o lo “scalpo da offrire all’Europa”, ma anche una mera questione di nuove risorse da trovare. In questo senso, tuttavia, sembra esserci una convergenza tra l’esecutivo e Confindustria. Infatti nel testo approvato la settimana scorsa, che contiene le linee guida della futura riforma del lavoro, si indica come principio direttivo dei decreti delegati “l’impossibilità di autorizzare le integrazioni salariali in caso di cessazione di attività aziendale”. Una frase che sembra rispondere all’invito di Squinzi a escludere dalla cig le aziende “chiuse e decotte”.

I casi di abuso da Fiat all’ex Eutelia – Di questi esempi di abuso della cassa integrazione, in Italia, ce ne sono stati diversi negli ultimi anni. Tra quelli più clamorosi, si possono annoverare lo stabilimento Fiat di Termini Imerese e il caso di Agile ex Eutelia. L’impianto siciliano del Lingotto ha chiuso i battenti nel 2011: da allora, i 1.100 lavoratori dell’area sono in cassa integrazione straordinaria. Ma l’azienda non ha alcuna intenzione di riavviare la produzione e, finora, le proposte per fare ripartire lo stabilimento si sono rivelate sistematicamente dei bluff. La storia di Agile ex Eutelia dura, invece, dal 2010: in seguito alla vicenda giudiziaria che ha investito i vertici della società, processati per bancarotta fraudolenta, associazione a delinquere e aggiotaggio, per l’azienda è scattata l’amministrazione straordinaria, per i duemila lavoratori la cassa integrazione. Una volta scaduta quella straordinaria, è cominciata quella in deroga, per altro erogata con otto mesi di ritardo.

Verso potenziamento dei contratti di solidarietà. Ma anche qui ci sono i “furbetti” – Ma se il Jobs Act da una parte intende limitare queste scorciatoie per dribblare le crisi strutturali delle aziende, dall’altra incentiva altri mezzi per ottenere lo stesso scopo. Il governo, infatti, prevede di legalizzare il demansionamento e di potenziare i contratti di solidarietà. Nel dettaglio, l’esecutivo chiede di potere rivedere la “disciplina delle mansioni, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro”. Tradotto: riduzione delle mansioni in cambio della salvaguardia dell’impiego. Lo strumento dei contratti di solidarietà, invece, è utilizzato per tagliare orario di lavoro e retribuzioni, con due possibili finalità: evitare riduzioni di personale (funzione difensiva) o favorire nuove assunzioni (funzione espansiva).

Nei piani del governo bisogna potenziare questa seconda scelta, ma nella realtà italiana lo scenario è ben diverso: la stessa Inps ammette che i contratti espansivi hanno avuto “scarsissima applicazione”. Prevale così la necessità di salvare i posti di lavoro, con l’istituto di previdenza che si sobbarca l’onere di pagare il 70% della retribuzione persa dal lavoratore. Secondo i dati della Cgil, nel 2013 hanno fatto richiesta di questo strumento 1.977 aziende in Italia, una cifra aumentata del 25% nel giro di due anni. Anche tra queste società, non mancano i casi di abuso dell’ammortizzatore sociale. La vicenda più eclatante, in questo senso, è quella di Telecom Italia. Dopo avere annunciato, nel 2010, 3.700 esuberi, la compagnia telefonica ha ottenuto il contratto di solidarietà per 32.000 dipendenti, risparmiando 80 milioni di euro all’anno. Lo Stato ha pagato la maggior parte della retribuzione persa dai lavoratori, una quota che fino al 2013 era pari all’80%: ogni anno, quindi, circa 60 milioni di euro sono stati trasferiti dalle casse pubbliche all’azienda delle telecomunicazioni.

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