Come accadeva ai vecchi tempi che non torneranno più, quando la banca di Enrico Cuccia era l’arbitro di qualunque affare di una certa rilevanza che avveniva in Italia, anche lunedì 29 settembre la riunione del patto di sindacato che governa Mediobanca si è conclusa all’unanimità. Ma stavolta l’armonia registrata al termine della riunione è il punto di arrivo di un serrato confronto sotterraneo fra due visioni sul futuro dell’istituto che ha visto contrapposto il presidente Renato Pagliaro, spalleggiato nelle retrovie da Fabrizio Palenzona (vicepresidente di Unicredit, il primo azionista della banca d’affari), e l’amministratore delegato Alberto Nagel, forte del rinnovato asse con Vincent Bolloré, secondo azionista di Mediobanca. Questi intenzionati a guardare alla City, al modello delle grandi investment bank globali, al confronto delle quali però Mediobanca è un bonsai, quelli più inclini a cercare di tenere insieme quel che resta del vecchio salotto buono.

In apparenza non vi sono grandi rivolgimenti. Pagliaro e Nagel confermati, e con loro il vicepresidente Marco Tronchetti Provera e Tarak Ben Ammar; qualche uscita scontata (l’ex presidente di Unicredit Dieter Rampl e un Carlo Pesenti sempre più freddo verso i cosiddetti salotti; qualche rotazione fra i manager interni (fuori Maurizio Cereda e Massimo Di Carlo, dentro Alexandra Young e Gianluca Sichel) e infine qualche novità che non altera gli equilibri (Maurizia Comneno, indicata come vicepresidente dal suo ex gruppo di appartenenza Unicredit). 

Alla prossima assemblea dei soci, il 28 ottobre, data in cui scade il mandato dell’attuale consiglio di amministrazione, inoltre, verrà proposto di ridurre le poltrone in consiglio di amministrazione. Un dimagrimento appena appena percepibile, quel tanto che basta per non risultare sgarbati verso la Banca d’Italia, che da tempo preme perché i cda delle banche siano meno pletorici. Non sarà questo il caso, visto che al vertice di Piazzetta Cuccia le poltrone scenderanno a 18 dalle attuali 20, senza intaccare la pletoricità di un consiglio. Ufficialmente, si legge “per assicurare una appropriata continuità di presenze”, in concreto per accontentare tutti i soci. A cominciare dal finanziere francese Vincent Bolloré che esce per far posto alle energie fresche della figlia Marie, 26 anni, dopo aver incrementato la sua quota azionaria nell’istituto al 7,5 per cento.

Bolloré ha giocato un ruolo fondamentale nel confronto degli ultimi mesi e il suo asse con Nagel si è rafforzato dopo che quest’ultimo è entrato a gamba tesa su Telecom Italia – di fatto invadendo un terreno che era storicamente del presidente Pagliaro (le partecipazioni). L’amministratore delegato di Mediobanca ha quindi assistito la compagnia di telecomunicazioni nella trattativa per l’acquisto dell’operatore brasiliano Gvt, controllato dalla francese Vicendi di cui Bolloré è azionista e presidente. La mossa ha avuto un solo risultato concreto: costringere (o giustificare) Telefonica, azionista a sua volta di Telecom (come Mediobanca), ad alzare l’offerta a 7,3 miliardi di euro, per la soddisfazione di Bolloré. Di contro, ci si attende che Vivendi rilevi quasi il 6% di Telecom da Telefonica, e questo potrebbe essere solo in primo passo, visto che le banche italiane, fra cui appunto Mediobanca e Intesa, vogliono uscire dall’infelice avventura sui telefoni. Anche se i tempi, insomma, sono cambiati, l’inclinazione a passarsi le fiches fra amici sembra proprio di no. “Non si è parlato di Telecom”, ha però precisato Nagel, smentendo che nella coda di riunione al patto di sindacato, abbia affrontato il tema con Bolloré e Ben Ammar.

Il fortuito assist di Nagel a Vivendi ha comunque definitivamente cementato l’intesa con Bolloré, con il quale, peraltro, non erano mancate frizioni e momenti di freddezza ai tempi dell’affaire Ligresti. E ha aiutato il banchiere a vincere le ultime resistenze del collega Pagliaro sulla liquidazione di quanto resta delle vestigia passate di Mediobanca. Resta ovviamente fuori discussione la quota del 13% nelle Generali. Infatti, dividendi che sono da qui (261 milioni di euro), fanno più della metà dell’utile del bilancio chiuso al 30 giugno (465 milioni, dopo la perdita di 176 milioni di un anno fa), mentre la vendita di partecipazioni ha portato in cassa utili per 242, 5 milioni. Tolto questo, e a dispetto dell’incremento delle commissioni e del margine di interesse, resta ben poco. C’è insomma da reinventarsi un business, e la City è la scommessa di Nagel.

@lorenzodilena

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