Mercoledì 24 non è giunta in procura alcuna richiesta d’accesso agli atti, nessuna telefonata dall’avvocato Franco Coppi e quindi, per il momento, il senatore e aspirante giudice costituzionale Donato Bruno ha soltanto annunciato di volersi informare sul fascicolo che lo riguarda. Il Fatto Quotidiano, nell’attesa, è in grado di rivelare che lo snodo più delicato – nell’inchiesta sull’ex colosso del tessile Ittierre che coinvolge Bruno – porta dritto all’isola caraibica di Tortola e alla capitale delle Isole Vergini Britanniche: Road Town. Qui è registrata la società Lure Limited, titolare dal 2010 di una delle più importanti licenze di Gianfranco Ferré, allora costola del gruppo molisano della moda. 

LA VENDITA DI FERRE’ E LE ACCUSE DEI COMPRATORI – Quando l’Ittierre – alla fine del 2009 – viene affidata ai tre commissari straordinari, nominati dall’ex ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola, Bruno si occupa anche delle trattative per vendere il marchio Ferré: l’avvocato e senatore di Forza Italia, insieme con Mediobanca e la Sin&rgetica di Bruno Ermolli, presta la sua opera ai commissari – Stanislao Chimenti, Andrea Ciccoli e Roberto Spada – per una delle operazioni più controverse della Ittierre in amministrazione straordinaria: la cessione della maison poi andata agli arabi di Paris. E gli arabi, più tardi, accuseranno proprio il nostro governo di averli raggirati, specie per “l’amara sorpresa” delle licenze asiatiche di Ferré, finite a una società in blacklist.  Cioè la cessione a Lure, per soli 4 milioni di euro più le royalties, dei diritti di sfruttamento del marchio in 14 Paesi del Far East più la Cina poi concessi, in sub-licenza, a una società cinese. Cessione avvenuta a cavallo dell’asta per la vendita di Ferrè, curata proprio da Bruno e i suoi, ma il punto è: a chi appartiene la Lure Limited?

Ruota proprio intorno a questo punto l’indagine della Procura di Isernia che non si limita a scandagliare la parcella da 2,5 milioni incassata dall’aspirante giudice costituzionale durante la procedura concorsuale della Ittierre spa – alla quale vanno aggiunti 150mila euro andati al figlio Nicola e 400mila versati all’avvocato del suo studio Valerio Giorgi –ma si occupa della vendita di Gianfranco Ferrè, uno dei pezzi più pregiati del gruppo della moda, passato nel 2011 alla Paris del Dubai di Abdulkader Sankari. Vale a dire una delle forze principali della moda e del business alberghiero in Medio Oriente ed Europa dell’Est che  ha rivolto pesanti contestazioni ai tre commissari nominati da Scajola. Lamentandosi a gran voce, tra il resto, proprio del contratto in “esclusiva” siglato da Lure – oggetto di una dettagliata inchiesta di Report del novembre scorso – che copre 14 territori oltre la Cina: Hong Kong, Thailandia, Macao, Indonesia, Laos, Malesia, Singapore, Filippine, Vietnam, Timor est, Cambogia, Brunei.

“CI FIDAVAMO DEI RAPPRESENTANTI DEL GOVERNO, INVECE…”- “Ci sembra che i commissari abbiano effettuato scelte destinate ad affossare il brand. Hanno chiuso i negozi in tutto il mondo o lasciato scadere i contratti di affitto. Ci sembra di essere finiti dentro un incubo, abbiamo avuto delle sorprese spiacevoli che ci hanno convinto che l’Italia non è un Paese che favorisca i progetti imprenditoriali. Ci fidavamo di una trattativa fatta con i rappresentanti del governo, invece…”, dichiarava per esempio un anno e mezzo dopo a Repubblica Aya Mbanefo, business development director di Gianfranco Ferré. Per poi puntare il dito sul contratto ancora oggi oggetto di un complicato contenzioso.

“Altra amara sorpresa. Il 10 novembre 2010 i commissari hanno firmato una licenza che noi conoscevamo come “China Contract”, relativa alla regione cinese. Ma il contratto di “esclusiva” si è rivelato coprire invece 14 territori oltre la Cina – sottolineava -. Questo contratto-capestro prevede l’estensione del marchio su tutto, dalle penne stilo ai sedili da bagno. Oltre a uccidere il business Ferré in una delle aree di maggiore espansione commerciale, lega alle stesse clausole anche i licenziatari della seconda linea Ferré e delle altre licenze prodotto (occhiali, profumi etc…) con ripercussioni molto negative sul business anche dei partner”. E in effetti l’accordo, che Il Fatto Quotidiano ha potuto visionare, prevede l’estensione del marchio su tutto, dall’abbigliamento alle piastrelle, con un contratto valido fino al 2026 e “diritto di rinnovo automatico per ulteriori 10 anni: una durata impensabile nel mondo della moda, in genere non si arriva ai 10 anni”, aggiungeva Mbanefo.

IL CONTRATTO CONTESTATO – Alla durata dell’accordo si aggiunge che, a comprare dai tre commissari governativi è appunto la Lure Ltd delle Isole Vergini Britanniche, che oltre a rendere opachi gli assetti proprietari delle aziende residenti, ne coprono anche i conti. La questione non è secondaria: le royalties da pagare al titolare del marchio, infatti, si verificano anche in base al fatturato del licenziatario che, però qui non è obbligato a presentare un bilancio. Infine c’è la tempistica: la cessione a Lure è avvenuta a cavallo dell’asta per la vendita di Ferrè curata proprio da Bruno e i suoi. Che, è la tesi della controparte secondo le dichiarazioni dell’epoca, non hanno informato i potenziali compratori della maison della vendita avvenuta all’indomani della chiusura della “data room”, la stanza virtuale con tutti i documenti riservati necessari per valutare una società in vendita.

LE PRIORITA’ DEI COMMISSARI – Da qui “l’amara sorpresa” contestata dai compratori anche per il prezzo. “Le royalties da licenze per quell’area hanno generato in passato fino a 15 milioni di utili all’anno per l’azienda e i commissari si sono accontentati di 40mila euro? Non capiamo le loro priorità, visto che hanno fatto scelte sconvenienti dal punto di vista economico e che mettono in pericolo quel made in Italy che tutte le vostre istituzioni dicono di voler difendere”, dichiarava al Sole 24 Ore nell’autunno 2012 Iyad Jalab, ad della nuova Gianfranco Ferré, sottolineando poi che “le licenze date ai cinesi non pongono alcun vincolo su dove debbano essere prodotti e da chi debbano essere disegnati i prodotti Ferré”.

Dal canto loro i commissari sostenevano che “non sono 40mila euro ma 4 milioni”. Somma, quest’ultima, che nel contratto corrisponde però al corrispettivo iniziale della compravendita e non alle royalties vere e proprie, che invece il compratore arabo valuta appunto in circa 40mila euro netti l’anno. “Due milioni sono stati versati subito, nel luglio 2010, e altri due avrebbero dovuto essere versati a Paris Group in un secondo tempo, ma la società di Dubai non li ha voluti incassare a causa delle riserve che ha sul contratto. La cifra pagata da Lure è dunque molto più alta di quella sbandierata dal ceo di Ferré – proseguiva in ogni caso l’apologo dei commissari riportato sempre dal Sole -. Anche ammettendo che per un’area così grande le royalties potrebbero essere più di 4 milioni, dobbiamo ricordare che quando abbiamo firmato quel contratto, nelle casse Ferré non c’era più un euro: i due milioni di Lure sono serviti per pagare gli stipendi e mantenere in vita la società per poter in effetti venderla, come siamo riusciti a fare. Non dimentichiamo che It Holding era in bancarotta e che non stava scritto da nessuna parte che Ferré si potesse in effetti salvare dal disastro”. 

E QUELLE DI SCAJOLA – Com’è ovvio, le indagini puntano anche a verificare il meccanismo che ha portato Scajola – non indagato – a nominare i tre commissari che dalla procedura hanno incassato quasi 4 milioni di euro e ora sono indagati per “interesse privato del curatore negli atti del fallimento”.

di Antonio Massari e Gaia Scacciavillani

Dal Fatto Quotidiano del 25 settembre 2014, aggiornato da redazione web il 29 settembre alle 8.00

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