Leggo con piacere che è in dirittura di arrivo una nuova iniziativa per richiedere più fondi per la ricerca, “per invertire la rotta”. E’ certo: i soldi spesi in laboratori, impianti, biblioteche, strumenti, reagenti e servizi vari hanno una ricaduta positiva immediata sull’economia del territorio, per non parlare dei posti di lavoro che permetterebbero di dare un futuro qui in Italia ai tanti bravi ricercatori che continuano a venir sfornati, nonostante tutto, dalle università. Oltre a questi buoni motivi ce n’è uno ancora più ovvio, talmente scontato che spesso viene sottinteso: le scoperte scientifiche portano progresso e benessere. Finanziare la ricerca è un interesse primariamente pubblico perché dalle scoperte (ad esempio, in campo biomedico) deriva in generale un miglioramento di durata e qualità della vita di tutti, ma siamo sicuri che questo fatto così apparentemente scontato sia vero anche oggi?

Prendiamo un caso recente quanto emblematico. Ad aprile è stata annunciata la scoperta del Sofosbuvir, la “medicina miracolosa” che debella l’epatite C: una malattia che conta milioni di contagiati in tutto il mondo e per la quale non esisteva cura. L’annuncio è stato però accompagnato da una pessima notizia: il prezzo del farmaco è estremamente elevato (84.000 dollari per trattamento!) al punto che i servizi sanitari pubblici lo forniscono gratuitamente solo ai casi più estremi. Se non vi si rientra, la guarigione bisogna pagarsela cara e per chi non se la può permettere… buona malattia.

Ma perché un prezzo così astronomico? Forse la produzione del farmaco richiede costose materie prime o processi chimici e macchinari molto sofisticati? Una notizia di tre giorni fa smentisce nettamente questa ipotesi: la Gilead ha deciso che in India il prezzo di un trattamento sarà di 1.800 dollari, ovvero circa il 2% del prezzo esorbitante praticato a decine di nazioni di fascia alta e media. Inoltre, la licenza di produzione verrà ceduta a sette industrie indiane, che realizzeranno impianti in grado di commercializzare il farmaco a questo prezzo presso le 91 nazioni di fascia bassa nelle quali si ritiene che il prezzo “occidentale” non abbia mercato.

Scartati i costi di produzione, potremmo allora pensare che il prezzo esorbitante dipenda dalla necessità di ripagarsi le spese di ricerca sostenute dal produttore: ma anche qui, un semplice calcolo mostra che non può essere questa la spiegazione. Con un guadagno di più di 80.000 dollari a trattamento, basta curare un milione di pazienti per incassare oltre 80 miliardi di dollari: ovvero, dieci miliardi in più dei 70 spesi nel 2012 in totale dalle industrie privata Usa per la ricerca nell’intero campo biomedico! Se pensiamo che i malati nel mondo sono 185 milioni di cui almeno la metà in paesi costretti a pagare il prezzo pieno (in Italia sono 1.200.000), è facile prevedere che per la Gilead si prospettano introiti vertiginosi, ordini di grandezza superiori a qualsiasi cifra possa essere stata spesa per la scoperta.

Ora, vale la pena notare che la ricerca applicata che il privato ha finanziato per ottenere il farmaco non è altro che l’ultimo stadio di una lunghissima staffetta: prima di essa c’è stata la ricerca di base, pagata in stragrande maggioranza con denaro pubblico. Sono state le scoperte e le innovazioni sperimentali e tecniche ottenute in decenni di sforzi e di investimenti pubblici che hanno consentito allo staffettista finale lo sprint che l’ha portato a tagliare il traguardo. Nessun essere senziente darebbe la medaglia per la staffetta solo all’ultimo frazionista: allo stesso modo, è ugualmente insensato che una scoperta di così grande beneficio potenziale diventi il monumento del fallimento di un sistema sociale che garantisce profitti illimitati a pochissimi, a spese della sofferenza e dei sacrifici di una moltitudine di persone.

In questo contesto, è onestamente possibile per un ricercatore chiedere allo Stato soldi per la ricerca semplicemente dando per scontato che ne beneficeranno tutti? In questo vuoto assoluto di idee e politiche sociali, noi ricercatori non possiamo limitarci solo a chiedere i mezzi necessari per il nostro lavoro, giustificandoci invocando a gran voce meritocrazia e valutazione, per poi rinchiuderci nei nostri studi a lavorare dimentichi del mondo esterno. Alla richiesta di fondi va affiancato un consapevole e prioritario impegno a vigilare, dibattere, ridiscutere e cambiare i principi fondanti dell’attuale sistema. Solo così i ricercatori avranno la legittimità e l’autorevolezza necessaria per promettere che ogni soldo investito in ricerca ritornerà raddoppiato sotto forma di benessere diffuso, invece che ad  accentuare sempre più discriminazioni ed ingiustizie.

 

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