“Avrei il cuore spezzato se questa famiglia si dividesse”, ha detto qualche giorno fa il primo ministro britannico David Cameron, ma intanto, incuranti dei sentimenti del leader conservatore, molti si stanno già attrezzando come se questa ipotesi, da lontana eventualità, si fosse trasformata in concreta possibilità. E infatti era poco più di un rumor ma è arrivata nei giorni scorsi la conferma: Royal Bank of Scotland, in caso di vittoria degli indipendentisti porterà il suo domicilio a Londra. Lo stesso farà la sua consociata Tesco Bank, e anche il gruppo assicurativo Lloyds, il gigante delle pensioni Standard Life, TSB Bank e la Clydesdale Bank. Oltre a centinaia di gestori e investitori che hanno già deciso per sé o per i propri clienti di portare nella capitale inglese denari e attività. 

Il mondo finanziario, che secondo uno studio di qualche mese fa condotto da Paul Marsh (London Business School) e Scott Evans (Walbrook Economics) ha fatto sottoperformare le società di un ipotetico “Scotsie 100” (le quotate scozzesi nella City), che altrimenti avrebbero fatto meglio del resto dell’UK, generalmente non ama l’incertezza, ed è spaventato dalla potenziale instabilità che potrebbe generare la vittoria del Sì. Che vuol dire il creare una nuova nazione e affrontare, per esempio, la questione debitoria, monetaria e fiscale, con inevitabili ricadute sul nuovo Regno Unito. Senza dimenticare i costi di avviamento: per la creazione di un sistema di welfare, una difesa militare, un’intelligence, ambasciate, consolati, uffici esteri e partecipazioni a Nato e Onu i costi potrebbero lievitare fino a 2,5 miliardi di sterline, dieci volte più della stima orientativa indicata informalmente dal primo ministro scozzese Alex Salmond.

Più decisivo probabilmente è il nodo del debito, relativamente al quale sono diverse le ipotesi sul criterio che verrà utilizzato per la ripartizione. Secondo i calcoli riportati dalla Bbc e prodotti dal Government Expenditure and Revenue Scotland (GERS) e dallo Scottish National Accounts Project (SNAP), se venisse usato il criterio relativo alla popolazione il debito scozzese raggiungerebbe i 92 miliardi di sterline, che rappresentano il 62% del Prodotto interno Lordo. Un rapporto molto basso, che lo sarebbe ancora di più se venisse invece utilizzato il criterio del bilancio fiscale, che porterebbe il debito a 56 miliardi di sterline e al 38% del Pil. Fonti invece inglesi fanno riferimento a 143 miliardi di sterline, che farebbe schizzare il rapporto debito/pil fino a più del 96%. Nell’ipotesi più probabile il pagamento a Londra avverrebbe nell’arco di 10 o 20 anni, ma non è da escludersi del tutto la scelta di una posizione conflittuale da parte di Edimburgo, che secondo alcuni giuristi potrebbe ripudiare la sua parte di debito nel caso in cui venisse negata agli scozzesi la possibilità di continuare a usare la sterlina.

La questione monetaria è tra le più delicate e dibattute. “Non c’è indipendenza senza sovranità monetaria”, ha detto il governatore della Bank of England Mark Carney, il quale ha rigettato l’ipotesi di un’unione monetaria con la nuova nazione scozzese. Negli ultimi giorni la moneta britannica, nel vedere concretizzarsi la prospettiva di un confronto serrato e la possibilità di una eventuale sconfitta del fronte del No (coloro che vogliono restare in coabitazione) ha già perso l’8-10% nei confronti del dollaro, e in caso di distacco la valuta britannica vedrebbe perdere ulteriormente la stessa percentuale. Non potrebbe fare molto Carney se la Scozia decidesse di continuare a usare il pound in maniera informale, sebbene presto o tardi ci sarà la necessità di trovare una soluzione adeguata. L’Euro non è ancora molto popolare, a differenza della Unione Europea alla quale Salmond vorrebbe aderire. Tuttavia anche su questo i punti interrogativi si sprecano.

Entrare nella UE implicherebbe dover agire sul debito, visto che alle nazioni candidate l’Unione chiede di mantenere il tetto del 60% per quanto riguarda il rapporto con il Pil, e obbliga di adottare la moneta unica nel prossimo futuro. Resta la possibilità di una nuova moneta, visto che la Scozia già stampa le sue proprie sterline. E sarebbe l’unico caso in cui il nuovo Paese potrebbe avere la possibilità di una reale politica monetaria. Ma tutto dipenderà dalle decisioni di Salmond e dalla quota di debito che deciderà di portarsi. Il valore di una moneta è strettamente legato alla sua reputazione e a quella del Paese, e nel caso in cui si arrivi a una rottura con Westminster e il primo ministro scozzese decidesse di andare via a mani libere, Salmond sarebbe costretto a prendere a prestito denaro “a tassi di Wonga” (una società di prestiti a breve termini a tassi elevati), ha dichiarato Danny Alexander, attuale Chief Secretary to the Treasury di Cameron.

Il cavallo su cui puntano gli indipendentisti che potrebbe convincere i più scettici, comunque, è rappresentato dal petrolio. La prospettiva per gli scozzesi di utilizzare in quasi totale esclusiva le estrazioni del Mar del Nord fa sognare la nascita di una nuova Norvegia. Le stime del primo ministro scozzese parlano di introiti fiscali per decine di miliardi sterline, che permetterebbero la nascita un fondo petrolifero sovrano dal giorno uno dell’indipendenza. Anche in questo caso non mancano critiche e distinguo, e le stime sulla portata attuale dei giacimenti sono talmente discordanti e in molti casi strumentalizzate per sostenere le posizioni politiche che è impossibile fare un’adeguata valutazione. Sarà il popolo scozzese a decidere, domani.

Articolo Precedente

“Lombardia più ricca della Scozia”. Il referendum scatena l’emulazione

next
Articolo Successivo

Infrastrutture, da M5S proposta per portare in Italia il “dibattito pubblico”

next