I “piccoli animali trasparenti” no, non sono riuscita a farli. Erano scritti in partitura, ma la mia immaginazione, per quanto fervida, ha dei limiti. Me la sono cavata meglio con il “linguaggio inventato in maniera liquida, come se fosse un testo recitato al contrario”. Ma il godimento vero è stato quando insieme al resto della “folla” mi sono impegnata a “fare l’eco” dei magnifici cantori solisti.

Accadeva a Milano, sul palco di uno degli eventi più attesi della rassegna musicale MITO: Reka, opera contemporanea del giovane compositore israeliano Yuval Avital, un happening folle eppure rigorosissimo dove s’intrecciavano sonorità di Paesi e tradizioni lontani e diversi: dall’antico canto Bön di un autentico lama tibetano ai canti della tradizione nomade della Mongolia, dal lamento funebre degli ebrei di Bukhara ai canti della tradizione zulu a quelli della tradizione sarda. Il tutto ritmato da formidabili percussioni e diretto dall’autore stesso (cantori solisti) e da Dario Garegnani (percussioni e folla).

In ebraico reka significa sfondo e a quegli sfondi – immagini colorate e surreali – s’ispiravano i canti e i suoni degli esecutori e di noi membri della folla sonora (un centinaio di persone di ogni età) che li accompagnava. Canti liberi, ma fino a un certo punto, perché tutti seguivamo una partitura molto precisa benché alquanto diversa da quelle tradizionali: nessun pentagramma e tantomeno alcuna nota o accordo, ma disegni, fonemi, testi, suggestioni.

Tre giorni di prove, ore e ore di lavoro insieme ad artisti straordinari: incantati dagli armonici sublimi del lama Samten Yeshe Rinpoche e di Omar Bandinu, uno dei maggiori tenores sardi, stupiti dagli acuti sovrumani di Sainkho Namtchylak e dai bassi più profondi dell’immaginabile di Yussuf Joe Legwabe, commossi dall’intensità del canto di Sofia Kaikov, allietati dal suono e dalla simpatia di Enkhjargal Andarvaanchig, mongolo dal nome impronunciabile ribattezzato Happy, felice come il suo sorriso.

Fra, con e su tutti, lui: Yuval Avital, capace di spiegare l’inspiegabile a colpi di metafore ardite e motivatore senza pari in un italo-israeliano immaginifico e divertente, come quando si è raccomandato di arrivare alle prove generali muniti di acqua e di “un piccolo schiscetta” (bisogna che la sua giovane e bella moglie, milanese, gli spieghi che fuori dai confini della città nessuno avrebbe capito che bisognava portarsi qualcosa da mangiare).

L’altroieri, finalmente, il concerto. Temevo che il pubblico (numerosissimo, gli studi East End al completo) potesse stentasse a entrare nel sogno di Yuval diventato sogno di noi tutti. Non è stato così: si percepiva nel buio della sala il respiro del pubblico in sintonia con il nostro, le melodie dei solisti e la nostra eco fluttuare in un territorio amico, i gong, i piatti, le corde del pianoforte (magnificamente percossi da Simone Beneventi e Lorenzo Colombo) scuotere e rinvigorire i sensi della platea tutta.

È stato bellissimo. Per noi e, così mi è sembrato, per chi ci ascoltava.

Si replica (purtroppo con un’altra folla) a Varsavia, il 24 settembre. Chissà come si dice “schiscetta” in polacco. 

Foto: www.yuvalavital.com

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