Tre fasi e tre anni di tempo per sconfiggere Isis. È questa la deadline fissata da Obama per la nuova campagna contro lo Stato Islamico. Il Presidente degli Stati Uniti lo annuncerà, scive il New York Times, durante il discorso alla nazione in programma per mercoledì, ma rassicura i cittadini americani: “Non interverremo come in Iraq nel 2003, non ci saranno nuove azioni di terra”.

Il piano d’azione dell’amministrazione Usa è chiaro: “Non dobbiamo pensare di eliminare lo Stato Islamico immediatamente, con uno spropositato impegno militare. Lo distruggeremo passo dopo passo, conquisteremo i loro territori e, alla fine, li sconfiggeremo”. Obama ha in mente un programma riguardante l’Iraq del Nord e la Siria basato su tre fasi. La prima è già iniziata e consiste in una serie di attacchi aerei mirati che mettano in sicurezza le popolazioni al confine con i territori del califfato e creino una sorta di cordone intorno all’area sotto il controllo dei seguaci dell’autoproclamato califfo, Abu Bakr-al-Baghdadi

La seconda fase dell’offensiva “alleata” prevede di armare e addestrare ciò che rimane dell’esercito iracheno, i peshmerga curdi e le tribù sunnite al confine con i territori dello Stato Islamico. In giugno, Obama ha chiesto al Congresso americano altri 500 milioni di euro per rifornire i ribelli siriani moderati, richiesta che si è fatta più pressante negli ultimi giorni proprio per portare avanti la seconda fase del piano. Questo step, però, ha attirato le critiche di una parte del mondo politico internazionale. Armare eserciti irregolari come quelli dei ribelli del Kurdistan, quelli siriani o le tribù di al-Anbar è un rischio enorme e che potrebbe causare, in futuro, rivendicazioni o lotte armate per il potere, portando al definitivo sgretolamento dell’area. Proprio le tribù di Anbar, che inizialmente hanno aiutato l’Isis e ora appoggiano il nuovo presidente iracheno, Haidar al-Abadi, hanno chiesto al nuovo governo di poter costituire una task force speciale per garantire la sicurezza nell’area da loro controllata. La “riconquista” delle tribù dell’ovest dell’Iraq è stata la prima vera vittoria del blocco occidentale nella lotta contro i miliziani di al-Baghdadi. La vera forza dei jihadisti è la capacità di instaurare un vero e proprio controllo politico sui territori che amministrano, grazie anche e soprattutto all’appoggio di tribù come quella di al-Anbar. Aver riportato queste organizzazioni tribali dalla parte dell’Occidente ha certamente destabilizzato il comando dell’Isis. Armare queste tribù, i ribelli siriani o i curdi, che alla fine del conflitto potrebbero tornare a rivendicare l’indipendenza dell’area, è però un rischio che Obama sembra voler correre. Se, ad esempio, i curdi avanzassero rivendicazioni, nonostante abbiano dato l’ok per far parte del nuovo governo Abadi, lo potrebbero fare con combattenti più addestrati e più armi a disposizione.

La terza fase del programma americano, la più dura, consiste nello sconfiggere definitivamente l’Isis sul suo terreno, dopo averlo privato degli elementi cardine su cui si basa la sua forza. Per realizzare questo ultimo step potrebbero volerci 36 mesi di tempo, un progetto che, quindi, andrebbe oltre la scadenza del mandato presidenziale di Obama, a gennaio 2017. Quest’ultimo passaggio, che una nuova amministrazione potrebbe accollarsi ancora in fase di realizzazione, è anche quello più delicato. Obama ha assicurato che non ci sarà nessun intervento di terra da parte dell’esercito americano e che non si ripeterà un Iraq-bis, ma la possibilità di operazioni su suolo iracheno non è da escludere a priori, dato che sarà comunque necessario un importante dispiego di forze per poter definitivamente estirpare lo Stato Islamico dai suoi territori.

L’alleanza anti-Isis, quella che dovrebbe entrare in gioco nella seconda fase, contribuendo ad armare i gruppi ribelli nell’area, e nella terza, sostenendo gli Stati Uniti nello sforzo bellico, è ancora in fase di costituzione. Obama ha già riscosso l’ok di Italia, Germania, Gran Bretagna, Turchia, Francia, Polonia, Danimarca, Canada e Australia, ma il Dipartimento di Stato americano fa sapere che sarebbero già 40 i paesi coinvolti. Un ruolo molto importante all’interno dell’alleanza, come spiega il New York times, sarà ricoperto dalla Turchia. Il paese con a capo Recep Tayyip Erdoğan è infatti il punto di passaggio dei “foreign fighters“, i miliziani volontari reclutati in Occidente per lottare a fianco degli uomini di al-Baghdadi. I combattenti stranieri utilizzerebbero la Turchia come punto di transito per poi entrare nei territori “ribelli” in Siria e Iraq. Ankara dovrà quindi impegnarsi a controllare il flusso di persone al confine con i due paesi mediorientali per bloccare i rinforzi allo Stato Islamico. Intanto, anche la Lega araba ha dichiarato guerra ai jihadisti mettendo in piedi un’alleanza di tipo difensivo: “Se uno di noi viene attaccato – ha dichiarato Nabil Elaraby, segretario generale della Lega araba – reagiamo tutti”. Anche il Segretario di Stato Usa, John Kerry, volerà, martedì, in Giordania e Arabia Saudita per coinvolgere anche gli stati arabi nella coalizione.

 

 

 

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