Il comandante Giorgio Mona è il pilota “a quattro strisce e una stella” che per 23 anni ha portato in giro per il mondo, sui suoi aerei privati, l’architetto Bruno De Mico, protagonista negli anni Ottanta degli scandali che hanno anticipato Tangentopoli (il caso “Codemi”, quello delle “carceri d’oro”). Ha portato in volo, tra gli altri, Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Franco Nicolazzi, Francesco De Lorenzo, Duilio Poggiolini. E tante valigette chiuse a chiave che viaggiavano lungo la rotta Milano-Roma.

Erano di De Mico i terreni su cui oggi stanno sorgendo alcuni dei nuovi grattacieli di Porta Nuova, orgoglio della Milano che cambia skyline e va verso l’Expo 2015. Oggi il comandante, pilota privato dell’eroe (sempre assolto) di Tangentopoli, è diventato protagonista di una caccia al tesoro planetaria e di un giallo internazionale, con tanto di cadavere misterioso. La storia inizia il giorno di capodanno del 2010, quando muore De Mico.
Qualche mese dopo, il comandate Mona, insoddisfatto per come lo ha trattato l’erede dell’architetto, la moglie Vanna Rambelli, fa quattro conti e apre una causa di lavoro milionaria: le chiede quasi 2 milioni di euro (per la precisione 1.890 milioni) per arretrati, adeguamenti, ferie, riposi non goduti, scatti d’anzianità, versamenti Inps, liquidazione. La signora Rambelli, che vive a Londra, risponde picche e sostiene che comunque non possiede nulla. A questo punto, il comandante si trasforma in segugio e, con l’aiuto di un’agenzia specializzata , scopre le proprietà e i conti dei De Mico in giro per il mondo, dalla Svizzera al Lussemburgo, dal Delaware alle British Virgin Islands.
La caccia al tesoro attira l’attenzione anche dell’Agenzia delle entrate e della Guardia di finanza, interessate a portare a casa qualche soldarello di tasse evase. Intanto, nel 2011, il giudice del lavoro del tribunale di Milano Riccardo Atanasio stabilisce che la richiesta del pilota è inammissibile, perché volava in tutto il mondo e non è di competenza della giurisdizione italiana. In appello, però, nel giugno 2014, la giudice Chiarina Sala ribalta il verdetto: la base degli aerei di De Mico era a Linate, dunque la richiesta del pilota è ammissibile . Ora sarà un nuovo giudizio di primo a grado a decidere nel merito. Intanto però muore Vanna Rambelli. O almeno così dice un certificato sudafricano, che fa riferimento a un incidente stradale avvenuto a Città del Capo il 12 maggio 2013.

Il cadavere risulta riconosciuto non dai figli, ma da un non meglio identificato “C.I.J. Pizzocri, friend”. Quando però il 30 agosto 2013, il pilota manda una notifica del suo processo a Londra, presso l’abitazione della Rambelli, il documento viene consegnato dall’ufficiale giudiziario britannico e risulta ritirato dalla signora in persona. Ma non era morta tre mesi prima? Allora Mona si fa mandare i documenti sudafricani. Un verbale di polizia riporta i dati dell’“auto A”, quella dell’investitore, William De Plessis, che si è scontrato frontalmente con “l’auto B”, su cui però non c’è una parola. Scheda vuota. Nessun nome. Nessun testimone. Quando il feretro arriva a Milano, il 27 maggio 2013, ad accoglierlo c’è solo il vecchio maggiordomo di De Mico, Tanino Tettamanti. A stabilire che si tratta proprio della signora Rambelli è una funzionaria del Comune di Capiago, Elisabetta Porro.

Ma la vedova De Mico, si chiede Mona, è davvero morta? Il pilota, per non sbagliare, riapre la sua causa contro i due figli, Robert, che vive a Ginevra, e Alessandra, che abita a Milano. Nel frattempo però comincia a pagare lui il fisco: 75 mila euro per Irpef che il suo datore di lavoro non gli aveva versato. Giallo internazionale, finale italiano.

Il Fatto Quotidiano, 4 Settembre 2014

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