Il peschereccio di legno ha il motore in avaria: si rischia un naufragio. A bordo ci sono 227 persone, tra cui 40 donne e 57 bambini, tutti siriani e palestinesi. Non molto distante un gommone con a bordo 96 africani subsahariani sta colando a picco. Il finale della storia questa volta è diverso. I 300 naufraghi sono stati salvati in due operazioni ravvicinate da Phoenix I, la prima imbarcazione di salvataggio finanziata interamente da privati. Appartiene al Migrant offshore aid station (Moas), la missione di salvataggio in mare finanziata da Regina e Christofer Catrambone, due imprenditori che dopo il naufrago di Lampedusa dello scorso 3 ottobre hanno deciso di impegnarsi per salvare le vite dei migranti.

Lei calabrese, lui americano, vivono a Malta da 7 anni, dove hanno costituito Tangiers group, un’agenzia che offre assicurazioni, aiuti in caso di emergenza e intelligence nelle zone più pericolose del mondo. Una volta recuperati, i naufraghi sono rimasti sulla Pheonix, un’imbarcazione di 40 metri, per circa 24 ore. L’equipaggio ha dato loro coperte, snack, acqua, un kit medico di primo soccorso. Per una ragazza diabetica è stato necessario chiamare un medico dalla Guardia costiera italiana, intervenuto per farle un’iniezione di insulina. Dopo i primi soccorsi, i naufraghi sono stati portati sulla nave San Giusto della Marina militare, che li ha portati a terra.

Certo, l’equipaggio della Phoenix I, in tutto 16 persone, tra cui due ex militari della marina maltese, non si aspettava che il primo salvataggio sarebbe stato così: finché a bordo ci sono tra i 60 e gli 80 migranti, la nave può concludere la missione e restare in mare. Con 300, deve rientrare in porto per rifornirsi di acqua, cibo, giubbotti di salvataggio, per sterilizzare l’ambiente. Salperà di nuovo venerdì 5 settembre e resterà in mare per altri 15-20 giorni per poi fermarsi per altri due. Così fino alla fine di ottobre, tempo per cui è prevista la missione.

“Tutti i nostri programmi sono indicativi: dipenderà dal mare e dal numero di persone che abbiamo a bordo”, spiega Regina Catrambone, la fondatrice di Moas. Per un mese di operazioni, serviranno 350 mila euro, che andranno per il pagamento degli stipendi dell’equipaggio, per il noleggio della flotta (oltre alla Phoenix ci sono due gommoni e due droni per individuare le “carrette del mare” in difficoltà) e per i costi di carburante. Affinché il Moas continui, serve che vada bene la raccolta fondi lanciata dal progetto, finora arrivata a circa 2 mila euro. Tra i donatori più generosi al momento c’è l’ong statunitense Medical Bridges.

“Avremmo potuto aspettare, raccogliere abbastanza soldi per coprire i costi e poi partire. Ma chissà quanto sarebbe servito. Invece abbiamo deciso di anteporre le vite dei migranti al denaro”, aggiunge Catrambone. Le difficoltà per prendere il mare sono state molte e non solo di natura economica. “Ci sono tanti modi per ostacolare: alcuni palesi, altri più nascosti”, continua Catrambone. Per capire a che cosa si riferisce Catrambone, basta guardare che bandiera batte Phoenix I: quella del Belize. “La burocrazia maltese ci avrebbe richiesto troppo tempo invece dovevamo partire subito”, commenta.

Nessuna competizione con Mare Nostrum o con le navi maltesi: “Siamo una missione d’appoggio”. E l’auspicio è che, qualunque decisione prenda l’Europa sulle missioni di pattugliamento dei confini, le navi in mare non manchino: “Più saremo maggiori saranno le possibilità d’intervenire”, conclude Catrambone.

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