Da regina di tutte le riforme a Cenerentola del Parlamento, dei partiti e del Quirinale. A furia di correre dietro agli annunci la politica ha perso qualcosa per strada. L’orizzonte lungo mille giorni, che ha cambiato marcia al governo, rischia di fare della nuova legge elettorale una prima vittima eccellente: stabilire come voteranno (prima o poi) gli italiani sta diventando secondario. La riforma calendarizzata con tempi contingentati alla Camera dal 17 marzo è parcheggiata in Senato, ferma da quasi sei mesi nei cassetti della commissione Affari Costituzionali. E’ uscita perfino dal rollio di esternazioni di Renzi, sparita, evaporata. E nessuno sa quando ne verrà fuori. “Non è solo una priorità ma una prima risposta all’esigenza di evitare che la politica perda ulteriormente la faccia”, scandiva Renzi durante il discorso al Senato del 24 febbraio, due giorni dopo l’insediamento a Palazzo Chigi. Ancora prima dell’estate il tam tam di dichiarazioni e incontri tra le varie forze politiche faceva presagire che sarebbe stata calendarizzata in tempi rapidissimi. Così, per ora, non è stato. 

L’8 agosto, a sorpresa, il presidente della Commissione Anna Finocchiaro informava i colleghi che “nell’ufficio di presidenza si è convenuto che, alla ripresa dei lavori dopo la pausa estiva, nella seduta che sarà convocata per mercoledì 3 settembre alle ore 16,15, avrà inizio l’esame del disegno di legge n. 1577 (riorganizzazione delle Amministrazioni pubbliche)”. Forza Italia per prima ha avanzato la richiesta, cui si sono associate le altre forze politiche. Nicola Morra, vicepresindete della commissione e senatore del M5S, che non ha sottoscritto la richiesta riconduce la scelta a questioni di “tattica”: “Dopo le tensioni in aula provocate dalla discussione sul ddl Boschi (che abolisce il Senato, ndr), si è deciso freudianamente di prendere tempo per far decantare e metabolizzare le lacerazioni che ci sono state anche nella maggioranza”. Fonti del Pd confermano questa scelta politica, frutto di una mediazione interna al partito,  che ha optato per affrontare l’Italicum dopo la prima lettura della riforma costituzionale, approvata il giorno prima della pausa estiva. 

La pausa estiva però è terminata e della legge elettorale non si ha notizia. In commissione è stata data la precedenza alla delega sulla riforma della Pa che porta il nome del ministro Madia ma non aporie irriducibili e fastidiosi grattacapi per la maggioranza. Impegnerà a lungo i senatori, tanto che l’Italicum è letteralmente svanito dal calendario su cui calerà a breve l’ingombro autunnale della legge di bilancio, col rischio di rimandare alle calende greche la legge pomposamente battezzata con il nome di tutto un Paese, non di un ministro. Dopo il piano Marshall, l’Italicum. Che però, a distanza di 170 giorni, non è mai arrivato a destinazione.

Anche l’agenda del governo Renzi segna il passo sul sistema elettorale. La questione non appare neppure citata nel sito renziano “passodopopasso” presentato dal premier lunedì. Insomma, nessuno sembra più avere fretta di licenziare il testo approvato a Montecitorio. Un’altra ragione per prendere tempo, perché al Senato il testo dovrebbe ricevere modifiche sostanziali sulle quali non ci sono intese, col rischio di avventurarsi in un percorso accidentato che fa affondare nelle sabbie mobili il piede di chi vuol dar l’impressione di correre.

Ne sono consapevoli sia il premier che Berlusconi, per i quali c’è un interesse comune a non accelerare troppo i tempi. Renzi sa che il tema rischia sempre di incendiare il Pd, dove le posizioni sono rimaste diversificate e a volte opposte, in particolare su soglie di sbarramento e collegi uninominali, oggetto di discussione anche fra i partiti della stessa maggioranza. E questo rischio avrebbe dunque suggerito di procrastinare tutto, a lasciare sospesa quella spada di Damocle e concentrarsi piuttosto su altri temi, l’agenda economica, il jobs act che sono assurti a reale priorità del Paese, dopo che molti indicatori hanno dato risultati negativi.

Anche Berlusconi, si sa, vede l’Italicum come un dito nell’occhio perché avrebbe molto più da guadagnare se si andasse al voto col Consultellum, il sistema imposta dalla sentenza della Corte Costituzionale (proporzionale puro con sbarramento) che gli eviterebbe l’indicazione del candidato premier e soprattutto non porterebbe ad alcun vincitore, obbligando centrodestra e centrosinistra all’ennesimo compromesso di larghe intese.

Facile per l’opposizione mettere il dito nella piaga: “Il problema del Pd e delle altre forze politiche – infierisce Morra – è che sono arrivati a dover operare una serie di scelte che non vogliono compiere. Non solo quella di fare le riforme con un condannato, ma anche quella di preferire ancora un sistema che permettere alle segreterie di selezionare i candidati piuttosto che una logica di apertura al cosiddetto ‘mercato elettorale’, di democrazia, dove la lista dei candidati viene selezionata attraverso meccanismi partecipativi”.

Lo slittamento senza termine certo non va nella direzione auspicata da Renzi di mondare la reputazione del Parlamento. Si ricorderanno i due incontri pre-estivi tra Pd-M5S, ripresi via streaming a distanza di 25 giorni, per tentare un allargamento delle intese poi finiti nel nulla. Renzi aveva chiarito ai deputati grillini che erano arrivati tardi, non c’è più tempo. Ma ora il tempo sembra non mancare più, tanto che la riforma potrebbe restare gambe all’aria a lungo e non è detto che verrà discussa entro l’anno. Di tempo, dunque, ne avanza pure.

Ma il problema, si è capito, non è il tempo. Non a caso in questa partita si registra anche un silenzio, lassù, al Colle che sempre vigila sulle priorità del governo e incalza e monita. Napolitano proprio ieri ha strigliato le Camere sull’annosa vicenda delle nomine al Csm e alla Consulta che hanno collezionato una serie di scrutini a vuoto, inducendo il capo dello Stato ha inviare un sollecito scritto ai presidenti Grasso e Boldrini. Ma non una riga per la riforma della legge elettorale che si è persa per strada e pare uscita del tutto dai radar di partiti e governo.

In questo gioco al rimando il pensiero corre a Roberto Giachetti (Pd), il vicepresidente della Camera che proprio un anno fa riprendeva lo sciopero della fame “a oltranza” per mettere pressione all’esecutivo Letta che si era impegnato a riformare la legge, dopo la bocciatura della mozione Giachetti alla Camera (28 maggio 2013) che chiedeva l’abolizione del Porcellum e un ritorno immediato al Mattarellum, sostenuta e poi affossata per mano degli stessi colleghi del Pd che l’avevano sottoscritta. Ora la nuova legge, bella o brutta che sia, è soprattutto ferma. Che farà, riprenderà lo sciopero? “Io sono rimasto all’annuncio della Finocchiaro di agosto, secondo cui la legge sarebbe stata trattata immediatamente alla ripresa”, risponde mostrandosi fiducioso che la riforma non finirà su un binario morto. “Il fatto che in commissione vi sia anche la riforma della Pa non è un problema, almeno sul piano teorico. Capita spesso che le commissioni si occupano contemporaneamente di più provvedimenti, distribuendo per il lavoro tra sedute diverse o in orari diversi rispetto alla stessa seduta”. Ma l’esponente Pd è anche consapevole che la polemica sull’Italicum potrebbe deflagrare da un momento all’altro, aggiungendo un altro argomento forte ai venti di dissenso interno che hanno ripreso a spirare dentro il partito (D’Alema, ieri: “Governo, impegno ma risultati insoddisfacenti”). Ma non è una concessione senza condizioni: “Per quanto mi riguarda, ovviamente, se dovessi rendermi conto che vi fosse un effettivo rischio che venga dimenticata, accantonata, infognata reagirei con la medesima determinazione dello scorso anno, poi con quale mezzo lo deciderò. Ma francamente non mi pare che siamo in questa situazione”. Forse. 

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