Da lassù si ha l’impressione di dominare il Paesaggio. Declivi boscosi e poi coltivati. Poche case. Anche se in compenso ci sono diverse distese di dimensioni differenti, di pannelli solari. Più giù i capannoni, in non pochi casi abbandonati, e poi l’area industriale vicino alla frazione di Taccoli. In alto, al di là della vallata, Treia. Un pezzo di Marche, provincia di Macerata.

La strada che si biforca dalla provinciale 361, s’inerpica, tra un tornante e l’altro, fino alla cima del Monte Penna dove c’è il castello di Pitino. Del quale rimangono resti del complesso fortificato del XIII secolo. A partire da ampi tratti delle mura e la porta attraverso la quale si può accedere all’interno. Qui si riconoscono il nucleo più antico costituito da una torre, la chiesetta di Sant’Antonio e la cripta e quello più recente al quale, invece, appartengono la chiesa grande con la torre campanaria d’impianto tardo medievale, un fabbricato adiacente adibito a canonica ed un altro edificio, forse un’abitazione colonica.

I 500mila euro stanziati nel 2012 dal Mibact attraverso la Soprintendenza regionale delle Marche hanno permesso il restauro di gran parte delle strutture, oltre al rifacimento della copertura della chiesa grande. Interventi che nonostante non possano definirsi risolutivi per lo stato del sito, hanno almeno avuto il merito di affrontare le maggiori emergenze. Certo è che oltrepassata la porta di accesso, ai lati del camminamento in ogni stagione dell’anno crescono rigogliose due alte “siepi” di rovi. Sulle quali gli abitanti dei dintorni raccolgono quantità impressionanti di more.

Spingendosi in direzione delle strutture superstiti, sulla spianata superiore, tra i cipressi la vegetazione è in molti mesi dell’anno florida. Entrare nella chiesa grande è agevole. Molto più difficoltoso spiegarsi perché affreschi e stucchi continuino a rimanere in quelle condizioni. In più punti minacciando di cadere a terra, in altri avendolo già fatto. Non di rado, danneggiati anche dagli autografi lasciati da alcuni dei turisti arrivati fin quassù. D’altra parte la struttura stessa sembra essere in un precario stato. Come indiziano le tante lesioni che si leggono lungo le pareti e i crolli del pavimento in diversi punti. Addentrandosi lungo il corridoio centrale si cammina su un irregolare tappeto di materiali crollati. A parte rare occasioni il castello è frequentato da pochi. Oltre ai raccoglitori di more. Ed è un peccato. Anche se naturale conseguenza di una poco efficace pubblicizzazione del complesso. Segnalato lungo la strada che conduce a San Severino Marche. Ma senza supporti informativi in loco. Eppure nelle immediate vicinanze del castello ci sarebbe anche dell’altro.

Il sito di un abitato dell’Età del Ferro, dal quale provengono importanti materiali ceramici piceni e attici, sia a figure nere che rosse. Mentre in un’area sottostante, dove è stata identificata una necropoli, in relazione all’abitato, sono stati recuperati ricchi corredi, risalenti fino alla fine del VII sec. a.C., conservati parte nel Museo Archeologico Nazionale delle Marche, ad Ancona, parte al Museo Civico-archeologico “G. Moretti” a San Severino Marche. Sfortunatamente nessuna di queste informazioni è presente per chi decida di raggiungere questo sito. Il castello di Pitino non è l’unico luogo nel quale fare i conti con il passato di San Severino Marche. Lungo la strada provinciale, pochi chilometri ad est dal centro attuale ci sono i resti della città romana. Presso la Chiesa di S. Maria della Pieve, parte del circuito murario costruito in opera quadrata con grossi blocchi di arenaria con le porte est e sud-ovest.

Sul lato opposto della provinciale un ampio edificio termale costituito da una serie di ambienti che si sviluppano intorno ad un cortile centrale pavimentato in opus spicatum. Più ad ovest, ancora a breve distanza dalla strada, un complesso artigianale con fornaci per la produzione di ceramiche. Le aree archeologiche, che fanno parte di un parco al quale appartengono anche altri resti di più difficile riconoscibilità, sono tutte recintate e variamente coperte. Fatta eccezione per la fornace, ci sono sul posto pannelli che forniscono informazioni, corredate da ricostruzioni delle parti mancanti. Purtroppo lo stato di conservazione delle diverse strutture raramente può dirsi ottimale, soprattutto a causa delle erbe infestanti. Così i mosaici e anche gli altri pavimenti dell’impianto termale hanno elementi che in più punti si sono distaccati. Mentre alcune parti della fornace sono in evidente sofferenza. Ma in ogni caso, da visitare. Magari trovandosi da queste parti.

Ma non senza adeguato preavviso considerato che le aree risultano chiuse e visitabili solo su richiesta. Indicazioni sul posto non ce ne sono. Ma potendo andare sul sito del Mibact oppure su quello della Regione Marche, nella sezione Turismo, il problema è risolto. Forse. Dal momento che i numeri telefonici riportati non permettono di mettersi direttamente in contatto con la signora che si occupa, materialmente, di aprire i cancelli. Senza considerare che bisogna pur tenere conto di ferie e malattie. In quei casi i siti rimangono, forzatamente off limits. Poco importa se i malcapitati turisti siano venuti anche da lontano.

Cosa hanno in comune il castello di Pitino e il parco archeologico di Septempeda? Nelle evidenti differenze, sono entrambi siti di grandissima rilevanza. Luoghi della storia di questo ambito territoriale. Tessere centrali di un puzzle dal disegno articolato. Semplificando, può affermarsi che siano “pezzi” di un Paesaggio ancora largamente “in salute”. Anche se con criticità in evidente, progressiva, crescita. Il castello e il Parco archeologico sono due spazi dei quali solo la faticosa tutela assicurata dalle diverse Soprintendenze ha permesso la salvaguardia. Restauri e interventi i motivi per i quali quei siti, nonostante tutto, esistono ancora. Ma proprio per questo varrebbe la pena fare di più.

Rendere il castello di Pitino e il parco archeologico di Septempeda due luoghi autenticamente rilevanti nelle politiche turistiche. Non solo della Provincia di Macerata. Varrebbe la pena che la tutela, finalmente affiancata da una ispirata valorizzazione, non sembrasse più quasi “dimezzata”. Che non lo sia. E’ davvero troppo anche per l’Italia senza cultura di questi anni, sapere che a Pitino si vada solo a raccogliere more e che a Septempeda i cancelli possano non aprirsi.

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