Quando entri in carcere la prima cosa che ti dicono è di spogliarti. Via i piercing, gli abiti con le fodere, i tacchi, la borsa, le medicine, via persino gli occhiali da vista. E niente crema per il viso. Il regolamento penitenziario non la prevede. L’articolo 8 parla della possibilità di tenere un rasoio elettrico in cella ma di creme neanche un cenno. D’accordo, ma almeno gli assorbenti te li passano. Sì, ma quelli lunghi e spessi (niente “ali”). Una-confezione-una. Per un anno. Quando imbocchi il corridoio verso la cella, scalza perché i tacchi te li levano e le ciabatte non te le danno (problemi di budget) capisci che non dovrai solo convivere con la mancanza di libertà, ma anche con un corpo che non ti appartiene più.

“Il carcere spoglia le persone non solo di quella che era la loro vita precedente ma anche della femminilità. E questo accade perché le detenute devono sottostare a regole plasmate su schemi ed esigenze maschili”, spiega Silvia Giacobini, antropologa e operatrice sociale della cooperativa Pid, con nove anni di esperienza nei penitenziari romani. Insomma il carcere, nato per gli uomini – le donne, storicamente, venivano mandate in istituti correttivi – continua tuttora ad avere un imprinting maschile. Le donne rappresentano il 4% della popolazione “ristretta” e la maggior parte della quale vive in sezioni femminili ricavate in strutture maschili come detenute di serie b i cui bisogni vengono ignorati.

Prima di tutto il diritto alla cura del sé. Alla casa circondariale di Rebibbia – 400 donne, una delle sezioni femminili più popolose d’Italia- venti detenute hanno deciso di sopperire alle mancanze del sistema, facendo di necessità virtù e raccogliere trucchi utili per sopravvivere senza perdere la propria femminilità, la propria dignità. Per questo è stato pubblicato Ricci, limoni e caffettiere, piccoli stratagemmi di una vita ristretta, Edizioni dell’Asino. Ecco come stirarti i capelli con il fondo della caffettiera; depilarti con acqua, zucchero e limone; idratarti con una patata; alleviare i dolori mestruali con cannella e noce moscata in alternativa alla Tachipirina che qui usano per curare ogni sintomo e male.

In carcere ciò che è o non è ammesso o vietato possedere spesso sfugge alla logica (vedi rasoio sì e crema viso no) e procurarsi l’indispensabile diventa complicato. Se al bettolino, lo spaccio interno, non trovi quel che ti serve devi compilare una “domandina”, inviarla alla direzione che deve autorizzare non solo te a possederla ma anche la ditta di rifornimento ad acquistarla. Così non sai mai se e quando arriverà quello che ti serve. O quanto costerà, visto che una confezione di assorbenti può costare tre volte di più che all’esterno. Allora meglio risparmiare su quel poco che ti passa la tua famiglia e usare quel che c’è, resistendo all’imbruttimento spersonalizzante delle ore d’aria.

A cura di Cristina Laura Cecchini, Cristina Gasperin e Silvia Giacomini e realizzato, oltre che da Pid, da Liscìa e Porco Rosso Avant-Garde, Ricci e limoni vuole incentivare il passaparola, la sorellanza, l’arte di arrangiarsi positivo sia tra le detenute sia tra chi all’esterno poco sa della vita ristretta. “Un buon rapporto con il proprio corpo è alla base dell’autostima femminile, necessaria per intraprendere la cosiddetta rieducazione”, aggiunge Giacomini con una vena di sarcasmo. Lei il carcere, così com’è, lo abolirebbe. Se infatti le donne sono un numero inferiore rispetto agli detenuti uomini, le complessità e le conflittualità delle detenute sono più gravi rispetto ai colleghi maschi e il sovraffollamento complica tutto, generando spesso risse legate a gelosie, a rapporti lesbo maggiormente tollerati, a una sessualità vissuta in modo palese o a un passato di violenza che le donne ripropongono con le stesse dinamiche che hanno subito fuori. “Mai incontrato in vita mia donne provenienti da coppie violente. Ma qui i centri antiviolenza non possono entrare”.

Il rischio in carcere è perdere di vista te stessa, materialmente e psicologicamente, senza poterti ritrovare, neppure in un’immagine, dato che neanche gli specchi sono permessi, se non quelli minuscoli, da campeggio. “Io sono entrata qui dentro quando ero giovane – racconta un’ergastolana. – Quando vado in permesso e mi vedo finalmente tutta intera allo specchio, mi ritrovo improvvisamente vecchia. Io la possibilità di vedere la mia faccia invecchiare non ce l’ho avuta, non ho visto il mio viso cambiare giorno dopo giorno. E ora non so più che donna sono”.

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