Trasformare le tragedie in farsa, perdere il confine tra il personale ed il collettivo, convincendosi che il personale sia collettivo e di interesse comune e il collettivo personale e di propria competenza, questa è (anche?, soprattutto?) la nostra epoca. Basta guardare un tg, sfogliare una rivista, girare in rete e abbondiamo di significati svuotati e vuoti riempiti di nullo significato. Che epoca bastarda quella in cui viviamo, si puó dire? Concedetemi l’espressione.

Se guardiamo al generale, molte notizie vengono ripetute all’infinito, rimbalzando a destra e sinistra sui social network e sulle varie testate online, poi, di punto in bianco, scompaiono e si è già presi da quella successiva, questo relativamente indipendentemente dalla notizia in sé. Ce ne sono alcune per cui sarebbe importante poter avere degli aggiornamenti, viene meno misteriosamente la frequenza di quando l’evento è esploso e aveva il vantaggio del nuovo e del manipolabile (in seguito “qualcuno che ha tempo da perdere” può avere il capriccio di approfondire e farsi una idea diversa da quanto riportato dai soliti media).

Fukushima, la Libia, la Siria, l’Ucraina, per citarne alcuni, chi ne parla più con la stessa intensità degli inizi? In alcuni casi chi ne parla più? Nei peggiori, chi se ne ricorda più? Gaza, sotto attacco israeliano, balza giustamente in primo piano, ma la vita dei palestinesi  anche in tempo di “pace”, è sempre da prima pagina per le condizioni indegne a cui è sottoposto un popolo nella sua quotidianità.

Eppure le vicende raccontate non si fermano, ma continuano. Storie di violenza, sopraffazione e incuranza della salute pubblica producono tutt’ora delle conseguenze, ma sembriamo non rendercene conto.

Si creano le opinioni e si addestra la gente a considerarle come dati di fatto, il soggettivo si mette in ghingheri e si vanta, da solo davanti allo specchio, di essere oggettivo fino a crederci, convincere se stessi è la chiave per convincere gli altri.

L’indignazione internettiana dura il tempo di una foglia che si stacca dall’albero e raggiunge terra, la pianta ne è ricca e in un autunno perpetuo, al comodo della nostra panchina, fatta di tablet, pc, telefonini intelligenti e qualche cartaceo che ancora resiste, aspettiamo la prossima cadere.

Se guardiamo al particolare, al noi composto dalla gente comune, l’ atteggiamento con il quale possiamo condividere le nostre notizie di vita, seppure esse abbiano ricadute, nella maggior parte dei casi, decisamente più blande e meno tragiche rispetto agli eventi mondani, prolifera di similitudini con quanto scritto in precedenza. Apprendiamo un ben definito modo di vivere o meglio di apparire. Quel che è importante ora non lo sarà più domani, quel che ho ora, non mi basterà più domani.

Online pubblico e privato giocano a scambiarsi continuamente i ruoli, proprio come due bambini i cui genitori si siano assentati, fidandosi troppo della loro capacità di autoregolarsi e autoregolamentarsi e al ritorno neanche loro saranno più in grado di distinguere la prole.

L’antropologo statunitense Edward Hall, con le sue ricerche sulla prossemica, ha delimitato le aree interpersonali (spazi fisici) in cui un individuo vive e interagisce. Egli individua quattro diverse distanze dall’altro a cui una persona risponde regolando la propria comunicazione: la distanza intima (0-45 cm), la distanza personale (45-120 cm) per l’interazione tra amici, la distanza sociale (1,2-3,5 metri) per la comunicazione tra conoscenti o il rapporto insegnante-allievo, la distanza pubblica (oltre i 3,5 metri) per le pubbliche relazioni.

L’area intima, ossia l’area nella quale l’individuo permette la vicinanza di un’altra persona o altrimenti si sente da essa invaso, è di soli 45 cm, ciò vuol dire meno di un braccio sollevato a mezz’aria. Chiunque valichi la soglia è nostro intimo o è ospite sgradito. Non ci sono definizioni per esprimere il concetto di intimità, essa è nel profondo di ognuno, se portata a galla con le parole può già divenire altro da noi. L’intimità non si (con)divide, si conquista e si difende.

Se fisicamente quindi abbiamo dei limiti a cui il nostro corpo risponde, la “mente-online” di ultima generazione (i telefonini saranno pure intelligenti, ma non necessariamente l’aggettivo va usato su chi li utilizza) si sta abituando pericolosamente a non averne, per cui intimo, personale, sociale e pubblico diventano un guazzabuglio, salvo poi retrocedere quando non ci si relaziona più virtualmente, ma dal vivo, allora vecchie difese e sano senso del pudore e del limite hanno la loro rivalsa, non c’è l’etere o un nickname a rappresentarci, ma “solamente” quel che siamo. Su internet leoni, dal vivo barboncini o poco meno.

Battaglia feroce quella tra i sensi ed i controsensi che ci legano al nostro vivere in un’epoca che ha stravolto i confini fino a pretenderne quasi la soppressione come logica conseguenza.

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