L’ideologo del regime dei Khmer rossi e l’uomo che fu capo di Stato dell’allora Kampuchea democratica sono a processo per accertare le eventuali responsabilità nei crimini commessi durante il governo di Pol Pot. Il secondo procedimento nel caso 002 del Tribunale speciale per i crimini in Cambogia vede alla sbarra i due ormai ottuagenari Nuon Chea e Khieu Samphan. Tra poco più di una settimana, il 7 agosto, gli stessi due imputati conosceranno anche il verdetto del primo processo che li vede coinvolti e per il quale rischiano il carcere a vita. Le accuse nel primo procedimento riguardavano i trasferimenti forzati della popolazione dalle città alla campagna, dopo che i Khmer rossi, gli uomini vestiti in nero, presero la capitale Phnom Penh, nell’aprile 1975, e le esecuzioni dei soldati del regime del generale Lon Nol.

Il secondo processo, la cui fase preliminare è iniziata oggi, potrebbe invece dare una rappresentazione più ampia dei crimini commessi durante il periodo al potere dei seguaci di Pol Pot nel tentativo di instaurare un’utopistica società egualitaria e agraria, che rompesse completamente con il passato. Gli imputati dovranno rispondere delle persecuzioni di vietnamiti e musulmani; dei matrimoni forzati, degli stupri e di quanto accadeva nei centri di sorveglianza e detenzione, primo tra tutti la famigerata scuola-carcere di Tuol Sleng che oggi è il museo memoriale del genocidio che tra il 1975 e il 1979 causò la morte di 1,7 milioni di cambogiani.

Il verdetto del 7 agosto potrebbe di fatto incidere sui lavori del secondo processo. Il primo procedimento pone di fatto le fondamenta di quello il cui iter ha preso via oggi e che si dovrebbe protrarre fino al 2016. A dire che il procedimento sarà più interessante di quello che si è chiuso lo scorso ottobre, ora in attesa di sentenza, sono gli stessi legali di Nuon Chea. L’ormai 88enne ideologo del regime, dicono, potrebbe infatti cogliere l’occasione per dare la propria versione di quanto accaduto. Come commenta il Phnom Penh Post la chiusura del secondo processo contro i maggiorenti ancora in vita del regime potrebbe tuttavia rivelarsi il canto del cigno del Tribunale speciale sostenuto dalle Nazioni Unite, istituito nel 2006, anni dopo la morte nel 1998 di Pol Pot.

Il percorso fin qui non è stato dei più semplici. In attesa del 7 agosto, al momento è stata emessa un’unica sentenza: la condanna in appello all’ergastolo per il compagno Duch, direttore del carcere di Tuol Sleng, meglio noto con la sigla S-21 nel quale trovarono la morte almeno 15 mila cambogiani. Alle difficoltà economiche che l’anno scorso hanno portato a diversi scioperi del personale cambogiano, che reclamava gli stipendi non pagati, si affianca la veneranda età degli imputati. Degli originari quattro imputati, quando il processo iniziò a novembre del 2011, ne sono rimasti soltanto due.

Ieng Sary, ex ministro degli Esteri del regime, è morto a marzo dello scorso anno ormai 87 anni, mentre la moglie Ieng Thirth, che rivestì l’incarico di ministro per gli Affari sociali, fu invece dichiarata inadatta a sostenere il processo. Gli altri ostacoli sono di natura politica e riguardano le pressioni che intralciano i casi 003 e 004, che coinvolgono altri ex khmer rossi, accusati per quelli che sono stati crimini contro l’umanità. Potrebbero infatti colpire personaggi ora vicini alla classe politica e dirigenziale del Paese, come denunciato lo scorso settembre da Human Rights Watch, che ha puntato il dito contro la riluttanza del governo cambogiano a finanziare il tribunale.

Sebastiano Carboni

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