Italia nuovo governo - Renzi-FranceschiniNel mio ultimo post ho provato a spiegare perché la riforma dei Beni culturali presentata da Dario Franceschini non sia (o non fosse, se è già morta) una riforma renziana. Alcuni osservatori hanno provato a dimostrare il contrario, ma è stato lo stesso Matteo Renzi a chiarire come stessero le cose, stoppando clamorosamente la riforma e umiliando pubblicamente Franceschini. Qualche spirito bizzarro ha sussurrato che sia stata proprio quella mia analisi a catalizzare i sospetti del califfo (lo ha riferito Gian Antonio Stella, nell’editoriale di sabato de il Corriere della Sera). In ogni caso, l’incidente è stato serio: proprio sul patrimonio culturale si è registrato il primo turbamento della vita di corte del governo, nonché il primo arresto non dico delle cosiddette ‘riforme’ (che si arrestano benissimo da sole), ma della magica catena di annunci in cui si è finora risolta l’azione di governo del sedicente Harry Potter di Rignano sull’Arno.

Come andrà a finire, ora? Renzi costringerà Franceschini a rimangiarsi la riforma? La congelerà in attesa di cucinarla in salsa diversa? La istraderà su un binario morto? Lo vedremo presto.

Per ora è forse utile chiedersi perché Renzi ha deciso di fermare le macchine, pur sapendo che avrebbe pagato un (per lui intollerabile) pegno mediatico. La risposta è che la riforma di Franceschini non è contro le soprintendenze (nonostante qualche grave errore): cioè non mira a limitarne il potere, ma a organizzarle in modo diverso. In altre parole: non sradica il presidio della tutela territoriale, non dà carta bianca ai sindaci, non libera le mani dei cementificatori. Ed è questo che non piace al premier: che, se potesse, farebbe carne di porco dell’articolo 9 come la sta facendo della seconda parte della Costituzione. E quando ha capito che la riforma Franceschini non era un tritacarne, Renzi ha staccato la spina. Si è scritto che glielo avrebbe fatto notare una potente soprintendente a lui ben nota: una signora ormai così remota da ogni idea di tutela del patrimonio diffuso e del paesaggio, e così determinata a mantenere il controllo delle sue slot-machine museali, da buttare disinvoltamente a mare la missione più preziosa dei suoi colleghi.

La confusione, dunque, è grande. E so che il mio giudizio non drasticamente negativo sulla riforma Franceschini ha creato sconcerto. Ma il dovere di chi fa ricerca e scrive sui giornali è quello di rimanere lontano da ogni ortodossia: senza paura di apparire eretici. Anzi, in fondo, sperandolo.

E se sono rimasti spiazzati i sicofanti renziani, che avevano previsto tuoni e fulmini da parte di quelli che chiamano le vestali del patrimonio o i talebani della tutela, è stato sconcerto anche dal mio lato del campo di battaglia: tra coloro che servono eroicamente lo Stato nelle trincee delle soprintendenze. Non parlo dei direttori generali romani (la cui espulsione di massa sarebbe il viatico di ogni seria riforma), né per delle direttrici regionali che, pur entrando ed uscendo da processi contabili e penali trovano il tempo di propalare che Montanari sdogana la riforma Franceschini perché il ministro gli avrebbe promesso la Direzione per l’educazione, la direzione degli Uffizi, il titolo di Pappataci o un Caravaggio da appendersi sul letto. Voci che non varrebbe nemmeno la pena di commentare, se non avessero addirittura lambito le pagine de il Corriere della Sera.

La miglior risposta è che io non ho mai cambiato linea: ho apprezzato nella riforma Franceschini il molto che è in continuità con ciò che io ed altri abbiamo provato a proporre nella commissione voluta da Massimo Bray. Già in A cosa serve Michelangelo? (Einaudi 2011), scrivevo: «Gli storici dell’arte dipendenti dal Ministero dei Beni culturali sono oggi divisi in due tipologie, tra loro assai diverse. La grande maggioranza, una sorta di ‘chiesa bassa’, opera in modo fedele al dettato costituzionale, cercando (in generale con preparazione e abnegazione) di tener testa ai poteri locali in nome della conservazione e della dignità culturale delle opere e del territorio che sono loro affidati. La ‘chiesa alta’ dei pochi super-soprintendenti è invece totalmente succube, e in ultima analisi complice, del potere politico – centrale, locale e di ogni colore –, e finisce per tradire sistematicamente la propria missione avallando e cavalcando le più inverosimili iniziative di ‘valorizzazione’ delle opere che essa avrebbe invece il dovere di salvaguardare. E se la soprintendenza di Firenze è l’epicentro del sistema, il suo storico e carismatico capo Antonio Paolucci ne è il potente nume tutelare». Ebbene, oggi chi è il più duro oppositore della riforma Franceschini? Ma Antonio Paolucci, naturalmente! Perché la riforma Franceschini smonta il monopolio (fallimentare e corrotto) dei Poli museali, e minaccia di mettere le basi per rivedere anche il sistema delle concessioni. E perfino Italia Nostra (a causa di un miserabile conflitto di interessi fiorentino) si è piegata a difendere il Polo Museale Fiorentino, in un grottesco comunicato che cita solo gli incassi di quello che Renzi ha definito «una macchina da soldi».

La riforma Franceschini è piena di difetti: oltre a quelli che ho elencato nell’ultimo post e all’irredimibile peccato originale di essere ‘a costo zero‘, il più grave è forse la mancanza di risposte all’orrenda piaga del precariato del patrimonio. Ma dobbiamo rammentare che il mondo che quella riforma provava a cambiare non è il migliore dei mondi possibili. Le direzioni regionali sono state un fallimento, i musei italiani non riescono a diventare centri di ricerca, l’educazione al patrimonio non è mai esistita, il territorio è non di rado abbandonato, la sinergia tra architetti e storici dell’arte è una chimera, il nesso tra musei e territorio (salvo qualche eccezione virtuosa) è purtroppo morto e sepolto.

D’altra parte, l’unione tra le soprintendenze architettoniche e quelle storico-artistiche è piena di rischi (come ho scritto), ma è un’alternativa migliore alla altrimenti necessaria soppressione di alcune sedi: e la chiusura a riccio dei miei colleghi storici dell’arte è un errore in sé (perché è motivata dal timore che a guidarle siano solo architetti: ma non possiamo rinunciare a fare una cosa giusta per paura che ci venga male, bisogna invece essere determinati a farla venir bene), ed è un errore che antepone l’interesse della corporazione all’interesse del patrimonio. Proprio come noi professori siamo i principali colpevoli dell’estremo degrado dell’università italiana, anche i funzionari delle soprintendenze hanno qualche responsabilità nella crisi della tutela: troppo silenzio, troppo conformismo e troppo conservatorismo hanno coperto i tradimenti della chiesa alta dei Beni culturali.

Chissà se ora (e ancor di più quando arriverà la vera riforma-fine-del-patrimonio) qualcuno capisce o capirà perché ho scritto che la riforma Franceschini, pur gremita di errori e gravida di rischi, non era pessima. Per esser chiari: se potessi decidere io, questa non sarebbe la mia riforma. Ma dati i tempi e la situazione, a me pareva francamente un miracolo che da quella macelleria che è il governo Renzi non fosse uscito un macello. E infatti…

Se per caso Franceschini dovesse comunque spuntarla non saranno certo rose e fiori. Ogni passaggio andrà seguito con estrema attenzione, dalla scrittura dei regolamenti, a quella dei bandi per le posizioni apicali dei musei, dal funzionamento dei segretariati regionali a quello del coordinamento regionale dei musei. Sarà, come sempre, una battaglia di trincea, da combattere con ogni mezzo. Anche distinguendo Franceschini da Renzi, se serve.

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