Vincenzo Nibali trionfa. Taglia il traguardo dell’Hautacam solo, da padrone del Tour, lanciato in una fuga più d’orgoglio che di forza, più di cuore che di ragione. E lo indica chiaramente, mentre passa la striscia bianca dell’arrivo, portandosi la mano sul petto, perché certe imprese non sono frutto di calcoli, bensì di passione, di impulsi, di momenti di grazia. Il ciclismo è sport di forti emozioni, la strada è il suo palcoscenico, il pubblico accompagna la fatica dei corridori con gioia ed allegria, l’atmosfera è di grande festa popolare. E’ un tifo che non si traduce in violenza, semmai in eccesso d’entusiasmo. Nessun altro sport offre così tanto, senza chiedere pedaggi, se non quello di poter assistere al passaggio dei ciclisti.

In queste strade affogate da foreste e sorvegliate dalle vette dei Pirenei che sembrano spade puntate al cielo, il Tour de France 2014 prende congedo dalle montagne che ne hanno fatto leggenda. La diciottesima tappa è partita da Pau, che del Tour è una delle città madri. In programma, 145 chilometri, ultima fatica del trittico pirenaico che ha segnato le gambe di tutti i concorrenti. C’è l’ultimo arrivo in salita, in cima all’Hautacam, che si staglia dopo aver scavallato il Tourmalet, appuntamento fisso del Tour montanaro. La Grande Boucle l’ha affrontato settantanove volte, la prima nel 1910, quando le strade erano sentieri per capre e per avventurosi pellegrini che la bici dovevano spingerla a mano. Da lassù, si può immaginare di vedere spuntare tra le nubi la Tour Eiffel, quando il Tour si avvia alla conclusione.

E’ giorno di di ideali commiati: da domani, il Tour ritorna a strade piatte, ad impegni meno traumatici. Sabato ci sarà la temuta tappa a cronometro, ma col vantaggio accumulato da Vincenzo Nibali, i problemi riguardano chi punta a salire sul podio per tenergli compagnia. Così, il primo a scattare è un certo Adam Hansen, seguito da una decina di corridori. Vengono ripresi in un amen. Al quarto chilometro ci prova Perrig Quemeneur. Seguito da Steven Kruijswijk. Gregari in cerca di piccola gloria. Dopo un ribollire di attacchi, finalmente piglia consistenza una fuga maturata al ventesimo chilometro. Vanno via in venti. Ci sono tre italiani, Daniel Oss, Marco Marcato e il suo compagno di squadra (la Cannondale) Alessandro De Marchi: il friulano è ormai un habitueé di queste iniziative, è già stato premiato due volte come corridore più combattivo della giornata.

Punta a diventare il corridore “supercombattivo” del Tour, che si piglia anche un bel gruzzolo: 20mila euro. E’ un bel gruppetto, con due vincitori di tappa, Blel Kadri e il migliore sul pavé, l’olandese Lars Boom. Ma fin da subito si capisce che al massimo arriveranno in cima al mitico Tourmalet, con il passaggio (“souvenir”) dedicato a Jacques Goddet, longevo patron del Tour dal 1936 al 1986. Perché dietro, Vincenzo Nibali vuole che il distacco non sia esagerato. Anzi, obbliga tutti i compagni di squadra, nessuno escluso, a tirare il gruppo in fila indiana, a tenere alto il ritmo. Non è un’esibizione di forza. E’ una parata. Vuol dire solo una cosa: oggi voglio vincere, voglio onorare la mia maglia gialla. Per rispetto di tutti coloro che in questi giorni mi hanno aiutato a conquistare la corsa più importante del mondo. Stavolta, l’improvvisazione è programmata. Voluta. Desiderata.

Nibali ha il senso della storia, la piccola grande storia del ciclismo. L’ultimo successo italiano al Tour è quello di Marco Pantani, nel 1998. A guidare il Pirata allora era Giuseppe Martinelli. Il direttore sportivo di Nibali. Sull’Hautacam, nel Tour del 1994, un giovane Pantani aveva staccato tutti, ma Miguel Indurain, la maglia gialla, non volle che vincesse: il Pirata gli aveva fatto perdere il Giro, doveva quindi vendicarsi. Nella nebbia che avvolgeva come un mantello la corsa, Miguelon trovò un alleato, il francese Leblanc, Insieme si dannarono per riprendere Pantani. Il patto era semplice: tu mi aiuti a riagguantare l’italiano, io ti lascio la vittoria. Anche per questo, Nibali, oggi medita a sua volta la vendetta di quella vendetta. La corsa di Vincenzo non si intreccia più con quella degli avversari. Non c’è confronto. Ma la corsa per salire sul podio trasforma la tappa in uno spettacolo pirotecnico.

Lungo la discesa dal Tourmalet lo spagnolo Alejandro Valverde si butta a tomba aperta, più avanti due gregari che stavano nella fuga lo aspettano. Va a pancia a terra, guadagna sino a venti secondi su Nibali e soprattutto sui francesini che gli stanno addosso, in classifica: Thibaut Pinot, la maglia bianca è terzo, ad appena 34 secondi; il veterano Jean-Christophe Péraud, 37 anni e ancora tanta voglia di provarci, segue a 42”, Romain Bardet è a più di due minuti da Valverde ma corre nella squadra di Péraud. Il tentativo di Valverde è disperato, senza possibilità di successo. Nibali piano piano rosicchia lo striminzito vantaggio, e ai piedi dell’Hautacam Valverde si arrende. Davanti, resistono in due: lo spagnolo Mikel Nieve della Sky e Blel Kadri. Poi, un sestetto con De Marchi e Oss.

Il gruppo Nibali gli sta alle costole. Nibali scalpita. Lo anticipa l’americano Christopher Horner, un vecchiaccio che lo ha battuto l’ultimo giorno alla Vuelta dello scorso anno. Horner scatta quando mancano undici chilometri alla vetta. Nibali lo aggancia in un battibaleno. Si aspettava magari un attacco di Pinot, o di Péraud. Gli va bene che sia Horner: con lui regola i conti. Lo abbandona al suo destino. Se ne va. Dieci chilometri. Non forza il passo, però il suo vantaggio aumenta progressivamente. Gli inseguitori arrancano. Alle 16 e 53, Nibali raggiunge Nieve. Anzi, lo salta d’amblè. Non lo vuole neanche in scia. Vuole la solitudine dei numeri primi. Più giù, Rafal Majka, il vincitore di Pla d’Adet, si preoccupa. L’arrivo ad Hautacam assegna 50 punti della classifica per scalatori. Majka è il leader, può conservarla se arriva entro il sesto posto. Lascia Péraud e soci, fila e rileva un Nieve in crisi.

Davanti, Nibali procede con maestosa sicurezza. Le roi du Tour. La folla applaude. Una ragazza in pants vuole scattare un selfie, al suo passaggio. Nibali urta il braccio della ragazza, la bici traballa, una piccola sbandata. Niente agguati del destino. Lentamente, il suo vantaggio cresce, ma senza quelle dimensioni che in altri tempi associavano sospetti. Domina, Nibali, ma da umano, non da robot. A un certo punto, a tre chilometri dalla fine, la sua pedalata si appesantisce, e si fa leggermente legnosa. Vincenzo non s’imballa, cambia regime al suo motore. E riprende a pedalare. L’ultimo chilometro è forse il più lungo della sua vita. Affronta l’ultima curva quasi sprintando. Sta lasciando un segno anche sui Pirenei, dopo averlo fatto sui Vosgi e sulle Alpi, e dopo soprattutto aver vinto a Sheffield, sotto il naso di Christopher Froome. Nel frattempo, l’altro Tour vede un quartetto avvicinarsi al traguardo: Majka, Péraud, Pinot, Tejay Van Garderen. Majka è beffato da Pinot, ma non perde la maglia a pois. Chi perde il secondo posto e scivola ai piedi del popdio è invece Valverde. Per pochissimi secondi. La Francia esulta, in fondo due dei suoi stanno con Nibali. Ad oltre sette minuti. Un distacco antico.

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