Avrebbe potuto continuare i suoi allenamenti nell’acqua fresca di una piscina per vincere ancora il campionato di pallanuoto, ma Bar Rahav, il ventunenne capitano del Kiryat Tiv’on e membro della nazionale israeliana, ha preferito vestire la mimetica e raggiungere i suoi coetanei nell’arsura di Gaza. Non ha sfruttato la possibilità di essere esonerato per meriti sportivi perché riteneva un dovere morale raggiungere i suoi coetanei mandati a combattere per la sicurezza del Paese.
Essendo ancora un cadetto, è morto mentre stava seguendo l’addestramento per diventare un ufficiale del Genio militare israeliano, colpito insieme al suo contingente da un missile sparato da un autocarro nell’area di Ramat Yishai. Bar Rahav però sarà sepolto con i gradi di sottotenente. Un riconoscimento al suo coraggio, al suo senso civico, al suo spirito di squadra, sebbene tutti avrebbero compreso un rifiuto dato che uno sportivo del suo calibro serve comunque il Paese.

Anzi, lo può fare nel modo migliore , attraverso la disciplina finalizzata a una vittoria senza morte. Con una competizione costruttiva si mostra il volto sano del sentimento di identità, dell’orgoglio di appartenere al proprio Paese, rendendolo un esempio positivo agli occhi del mondo.

La guerra illumina invece l’altra faccia di Israele, quella di chi lo governa pensando alla prossima vittoria elettorale, al potere, e non a costruire un futuro giusto e sicuro sulla lunga distanza per la propria comunità.

Quella dei coloni, degli ultranazionalisti che pensano solo a nutrire la propria visione autistica dell’esistenza. La guerra è una trappola dentro cui i tanti israeliani che ne hanno orrore sono finiti e finiscono, costretti a scambiare per autodifesa ciò che invece non è altro che il risultato dell’incapacità, egoismo e chiusura mentale di chi li governa. Così anche i cittadini giusti e responsabili di Israele, i giovani come il giovanissimo Rahav, si trovano costretti a scegliere tra l’orrore di dover uccidere anche persone innocenti e il senso di colpa che proverebbero se non andassero a condividere la stessa sorte dei loro concittadini.

Quando i missili del nemico iniziano ad arrivare, è già troppo tardi. E bisogna scegliere. Chi non sceglierebbe di difendere la propria “famiglia” che magari non ha mai votato per chi siede al governo e ha sempre pensato che anche i palestinesi abbiano diritto a uno Stato dove vivere in pace?

Lo pensava anche Uri Grossman, il figlio dello scrittore e intellettuale David, una delle coscienze critiche di Israele, un sionista che ha sempre riconosciuto i diritti dei palestinesi e non manca di partecipare ogni venerdì alle manifestazioni contro gli sfratti illegali dei profughi del ’48 a Gerusalemme Est, espulsioni che consentono ai coloni di invadere quella che dovrebbe diventare la capitale dello Stato palestinese.

Uri, anche lui ventunenne, è morto dentro un carrarmato colpito da un missile di Hezbollah durante l’ultima guerra con il Libano. Anche il figlio quarantenne di Avraham Yeoshua, che da anni predica nel deserto il dialogo diretto con Hamas, il compromesso con il “nemico” per il bene dei civili di entrambe le parti, sta combattendo a Gaza. Il padre, dome tutti i padri, ora vive nell’ansia per la sua sorte. Ma quando è il momento bisogna andare. Ci sono però giovani uomini come Yeremy Liban, un ebreo francese che ha deciso di rifiutare questa logica.

A 17 anni aveva lasciato la Francia per andare in Israele a fare il servizio militare. “Credevo di difendere il Paese dei miei avi ma negli anni ho capito che avevo sbagliato. Cosa stiamo difendendo con le armi? L’industria bellica, non la nostra incolumità e nemmeno quella dei figli che avrò. Se oggi mi richiamassero per andare a combattere, preferirei subire un processo e stare in galera tutta la vita piuttosto che ammazzare un bambino, un essere umano. Rifiuto la logica delle armi, della violenza. Questa non è autodifesa, è un massacro causato dalla malafede dei nostri politici e da una fede cieca”.

Come Yeremy ce ne sono altri. Che in questi giorni hanno manifestato in piazza Rabin a Tel Aviv e sono stati picchiati, come Barak Cohen, dagli ultranazionalisti, arrivati poco dopo l’inizio delle manifestazioni, sotto gli occhi rivolti altrove della polizia. Ci sono artisti noti, in primis Noa, che stanno subendo discriminazioni di ogni genere per aver espresso il loro dissenso. Non sorprende che oggi sia stata cancellato il tour italiano della cantante israeliana per l’ostracismo di parte della comunità ebraica*.  La settimana scorsa Noa aveva accusato il premier Bibi Netanyahu di “non volere la pace, mentre il presidente palestinese Abu Mazen la ricerca”.

Ma ci sono soprattutto i refusnik, i ragazzi e le ragazze che si rifiutano di fare il servizio militare, che non prevede esoneri, se non per malattia mentale e incompatibilità fisica. Una scelta che comporta il carcere, almeno 80 giorni e l’impossibilità di lavorare nel settore pubblico. “In questi 13 anni di vita in Israele ho visto crescere la polarizzazione sociale. Il problema è che coloro che vogliono la morte degli arabi, sono coloro che amano le armi, le usano, e presto, molto presto, le useranno anche contro di noi, che la pensiamo diversamente”, conclude amaramente Yeremy, un cittadino qualunque, ma fondamentale per farci continuare a credere che in Israele oggi ci siano persone che soffrono nel vedere questa mattanza. E non esultano dal confine.

*Aggiornamento 24 luglio 2014,  ore 14,00
Ci segnalano che è stato cancellato non l’intero tour di Noa ma la sola data del 27 ottobre a Milano, come riporta correttamente il link all’Ansa. Ci scusiamo con i lettori.

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