“Aver vinto nel giorno del suo anniversario è una cosa molto speciale, per me”: Vincenzo Nibali parla come pedala. Sobrio, nello stile, ma con grande sostanza. Il 18 luglio è una data speciale per il ciclismo italiano. Nel bene, perché nel 1914 nacque Gino Bartali e tantissime volte, in quel giorno lo stesso Bartali e tanti altri italiani furono protagonisti di grandissime imprese al Tour de France. Nel male, purtroppo, perché il 18 luglio del 1995 Fabio Casartelli durante la quindicesima tappa del Tour, lungo la discesa del Colle di Portet-d’Aspet, perse il controllo della bici e sbatté mortalmente la testa contro un paracarro. Aveva conquistato l’oro ai Giochi di Barcellona. Il ciclismo è così: pagine di gloria e di dolore, come la vita.

Il messinese Nibali ha onorato Bartali all’antica, trionfando nel luogo e nel momento giusto. Da uomo solo al comando ha tagliato il traguardo della prima tappa alpina, sgretolando progressivamente quel che restava dei suoi avversari. L’ha fatto con un’azione costante, macinando una cadenza che nessuno è riuscito a mantenere. Senza mai forzare. Senza mai sollevarsi sulla sella. Con una facilità che ha demoralizzato gli avversari. Via via che decideva di agguantare chi era scappato, produceva allunghi irresistibili e in quattro e quattr’otto li riacciuffava. Una semplicità disarmante. C’è il Tour di Vincenzo. E il Tour degli altri.

Sulla lunga salita finale – oltre diciotto chilometri – ha dapprima controllato il gruppetto dei migliori. Era rimasto senza compagni di squadra. Il danese Jakob Fuglsang, caduto nella discesa dal Col de Palaquit. Michele Scarponi, raffreddato e martirizzato, come tantissimi altri corridori, dal caldo feroce, staccato irrimediabilmente. Solo il bravo estone Tanel Kangert teneva duro, tirando il gruppo dei migliori, come gli aveva chiesto Nibali, che voleva evidentemente sgranare il plotoncino. Poi Kangert mollava a undici chilometri dall’arrivo. Vedendo Nibali senza gregari, i superstiti si sono come rianimati di colpo. Tentare non nuove e un pizzico di bagarre metteva in fibrillazione il gruppetto di testa, una ventina di corridori al quale si era attaccato, ormai con le forze al lumicino, il prode Alessandro De Marchi che era rimasto in fuga per gran parte della tappa, arrendendosi soltanto a meno di quattordici chilometri dall’arrivo. Guadagnerà l’ambito riconoscimento del numero rosso che premia il più combattivo della giornata.

Ma i calcoli e le speranze degli avversari di Nibali si sbriciolano appena osano attaccare. Non solo: il tasmaniano Richie Porte della Sky, secondo in classifica, nonostante l’aiuto dello spagnolo Mikiel Nieve, annaspava, e invece di restare davanti rimaneva ineluttabilmente indietro. Una “cotta” da tempi di Bartali. Eh sì, per quei paradossi del ciclismo, non sono le salite dalle pendenze impossibili a scolpire le classifiche, bensì quelle lunghe e regolari, dove si può mantenere velocità che col passare dei minuti si rivelano fatali. L’ascesa a Chamrousse è una di queste: lunga più di diciotto chilometri, tornanti solamente all’inizio, dopo persino qualche rettilineo che permette a chi insegue di vedere chi è avanti. E in salita, come ben sa chi ama pedalare, la vista è assai più veloce delle gambe…

Fatto sta che dei nemici di Nibali restavano lo spagnolo Alejandro Valverde e la truppa dei francesini: Romain Bardet, maglia bianca, Jean-Christophe Péraud, Thibault Pinot che assaporavano il podio visto il crollo di Porte. Poi qualche oustider come il polacco Rafal Majka reduce da un buon Giro d’Italia, il ceco Leopold Koenig. Non pericolosi per la classifica, ma per la vittoria di tappa. Insomma, tante corse parallele. Così, succede che Leopold Koenig ci provi a scappare. Che Majka gli balzi addosso. Che Nibali li lascia andar via, tanto non li teme. Pure Laurens Ten Dam si invola, per cercare di agganciare i due in testa. Nibali, imperturbabile. Pare attento a non farsi infilzare da Valverde, l’unico che lo impensierisce. Beh, attento proprio non del tutto. Ad un certo punto lo spagnolo scarta, s’incurva, fila via. Nibali resta sui pedali. Reagisce invece Pinot che raggiunge Valverde. Pochi secondi, Nibali ingrana la marcia. Li raggiunge in un amen. In agilità. Un’accelerata progressiva. Mancano meno di sei chilometri.

Alle cinque in punto della sera, la situazione è questa: Koenig e Majka in testa. Nibali, Valverde, Pinot e Ten Dam a una quindicina di secondi. I francesini a oltre un minuto. Porte in sprofondo rosso, oltre i sette minuti. Tre minuti dopo Nibali allunga. Valverde accusa il colpo. Come Pinot, che ha un nome scoppiettante ma non la classe. Alle 17 e 04, Nibali piomba sui due in testa mentre dietro Valverde e Pinot litigano. Il francese chiede allo spagnolo di collaborare, vede la maglia gialla a portata d’occhi, pensa e dice che se si danno cambi regolari, forse Nibali può essere ripreso. Valverde fa orecchie da mercante. Pinot lo manda a quel paese. Valverde allunga, per dispetto. Ma è un fuoco di paglia. Pinot lo tallona.

Nibali, intanto, offre a Majka e Koenig di andare al traguardo insieme, chiede solo di aumentare il ritmo, altrimenti Valverde, che in volata è il più veloce, potrebbe mandare all’aria il loro tentativo. I due sono al limite, hanno esaurito la benzina. A tre chilometri e 200 metri dal traguardo Nibali decide di dileguarsi. Spicca il volo. Che non sarà quello dell’Airone o di Ginettaccio, perché il ciclismo è cambiato, perché il ciclismo del passato è storia ma anche favola. Oggi tecnica e materiali smussano le differenze. Ma Nibali non ci sta, nel giorno dei cento anni di Bartali vuole entrare nella leggenda. E ci riesce. Appena prima dell’arrivo, quando mancano 350 metri, si alza sui pedali, si stira la maglia, allarga le braccia. Terzo successo di tappa. Primato consolidato: è sempre più primo. Pure nella classifica degli scalatori.

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