Uscito il 27 giugno negli States e tra 25 e 26 in gran parte del mondo, Transformers 4 – L’era dell’estinzione ha totalizzato a oggi 752 milioni di dollari, di cui 210 in patria. Ma il risultato più strepitoso l’ha realizzato in Cina: uscito sempre il 27, in soli 11 giorni aveva già superato Avatar, fermatosi a 204 milioni nel 2011, quale maggior incasso di sempre con 219 milioni, ulteriormente levitati. Perché?

Tre ragioni essenziali: la saga mutuata dai giocattoloni Hasbro è molto popolare in Cina, se già Transformers 3 nel 2011 s’era messo in tasca 165 milioni, e un reality ad hoc (Transformers 4 – Campagna di reclutamento per attori cinesi) ha rincarato la dose; il mercato cinematografico della Repubblica Popolare è in grande espansione, con 12 nuovi schermi ogni giorno, e sempre più spesso le compagnie locali si affiancano produttivamente – qui Jiaflix Enterprises e China Movie Channel – agli Studios; Hollywood, alle prese con la contrazione interna dei consumi, guarda sempre più a (Estremo) Oriente, India e Cina, con qualche lauta concessione al palato indigeno: se Iron Man 3 e Looper, per dirne due, avevano sequenze aggiuntive girate nella Repubblica Popolare, Transformers 4 offre una terza parte made in Hong Kong e dintorni, nonché la megastar Li Bingbing con un ruolo preminente.

Insomma, Hollywood è pronta a tradurre la celebre scritta a caratteri cubitali in mandarino. Ma perché per Transformers 4, ancora diretto dallo Spielberg 2.0 Michael Bay, parliamo in primis di incassi e dinamiche produttive/distributive? È l’unica cosa interessante: il film in sé è una boiata pazzesca, smargiassa e cacofonica, infarcita di cosmogonie e ideologie da saldi del pensiero, solleticata da un’ironia metacinematografica pletorica e (con la coscienza) sporca. Se si pensa al Cinema, L’era dell’estinzione è fedele sottotitolo: il gradasso e tonitruante Bay, e il suo sceneggiatore Ehren Kruger, deve garantire adrenalina e creatina a uso bimbiminkia e derivati, e così fa, licenziando un blockbuster action che di pachidermico ha i barriti CGI e le proboscidi ermeneutiche – l’ironia tagliata con l’accetta di cui sopra – lasciate penzolare perché gli stolti possano bearsi del famigerato “livello segreto”. Viceversa, sarebbe stato meglio dirlo subito: vogliamo incassare e basta, dunque, abbiamo fatto un rilancio (re-boot) mascherato della saga, con Mark Wahlberg al posto del desaparecido Shia La Beouf, la lotta tra robot buoni (Autobot) e cattivi (Decepticon) archiviata, il triangolo papà (Wahlberg), figlia (Nicola Peltz, con shorts assassini) e fidanzato segreto (Jack Reynor) che fa tanto teen-movie, echi stanchi da Ritorno al futuro fino a Pacific Rim, e nulla più, perché “volevamo solo incassare”.

Ma così non è: Bay e sodali menano il robot (il redivivo Optimus Prime) per l’aia, mettono alla berlina quei cattivoni della Cia, discettano sull’etica degli inventori (Stanley Tucci, un Tony Stark de’ noantri), riesumano i dinosauri e, duole, affidano a Optimus Prime la lezioncina morale sulla nostra perduta umanità. Tutto questo in un pantagruelico carrozzone da 165 minuti, che in America, recensioni e incassi alla mano, ha fatto subito gridare all’esacerbata divaricazione tra gusto critico – semplice buon gusto, in questo caso – e gusto del pubblico: vedete e giudicate voi stessi, ma sarebbe sbagliato credere al tertium non datur tra entertainment e art cinema, mainstream e autorialità, blockbuster e idee. Negli ultimi mesi, la sintesi è riuscita a X-Men – Giorni di un futuro passato e a Captain America – The Winter Soldier. Temiamo Michael Bay non li abbia visti. Rimane un’anatra laccata. Anzi, leccata: dagli Usa alla Cina.

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