“Le municipalizzate, sapete quanto costano ai cittadini come costo complessivo? Circa un miliardo e mezzo di disavanzo. Noi proponiamo di sfoltire e semplificare: dobbiamo passare da ottomila a mille in tre anni”. Così si è espresso il premier Renzi lo scorso aprile. Sullo stesso tema, pochi giorni fa, in un post del suo blog, Carlo Cottarelli, commissario straordinario alla spending review, ha parlato di vera e propria giungla. Che risulta in larga parte inesplorata e di estensione incerta. È addirittura ignoto il numero delle società. C’è chi parla di 5500, chi di 8mila, chi addirittura di 15mila. Cottarelli ipotizza invece che la pletora di società, consorzi, agenzie, enti vari partecipati degli enti locali con le annesse scatole cinesi, costituisca un esercito di almeno 10mila unità.

Nella impossibilità di determinare il numero esatto delle partecipate, non è chiaro nemmeno quale sia il relativo reale costo per la collettività. L’ultimo censimento attendibile del Dipartimento della Funzione pubblica ha evidenziato come i risultati economici delle partecipate siano crollati del 77% nel solo 2011, ultimo anno monitorato e solo il 56% delle società locali ha chiuso in utile. Mentre alcune settimane fa la Corte dei Conti ha parlato di un costo pari a 26 miliardi, una recente ed articolata indagine di Confcommercio ha calcolato che gli oneri della pubblica amministrazione per le società partecipate ammonterebbero a circa 22,3 miliardi di euro nel 2012, in crescita di oltre il 20% rispetto al 2010. E un recente studio dell’Unione delle Province Italiane stima che gli oneri per partecipazione nel 2013 sarebbero in ulteriore sensibile crescita. In particolare sul versante dell’indebitamento, che secondo la Corte dei Conti ed il servizio studi della Camera dei Deputati, sarebbe attorno a 35-40 miliardi.

Ma il fatto più rilevante è e resta quello di una capillare diffusione delle partecipazioni in capo agli enti locali. Se infatti i 7,25 miliardi di oneri a livello centrale sono costituiti, per la gran parte, dai trasferimenti a Poste italiane e Ferrovie dello Stato, i 15 e passa miliardi di euro sopportati dagli enti locali finiscono in una miriade di società, che non sempre forniscono servizi pubblici in senso stretto.

Gli enti locali, in sostanza e stando al rapporto di Confcommercio, sopportano il 68% di tutti gli oneri sostenuti dalla P.A. per partecipazioni. Il che permette di affermare che praticamente il capitalismo pubblico è tutto capitalismo locale. Un capitalismo con cui la politica troppo spesso dà vita a influenti e clientelari centri di potere o addirittura a vere e proprie cricche affaristiche. Con l’ulteriore aggravante che le partecipate, nella veste delle cosiddette società in house, sono elementi fortemente distorsivi della libera concorrenza nei settori dei servizi pubblici. Anche questo spiega come mai le partecipate locali hanno sempre goduto di ampie protezioni politiche trasversali e non si è mai riusciti a sradicarne la degenerazione e la loro proliferazione. Cosicché i tentativi in tale direzione hanno fatto tutti un buco nell’acqua. I Comuni fino a 30mila abitanti lo scorso autunno avrebbero dovuto privatizzare le proprie società, ma questo non è avvenuto. Tra norme poco chiare e contraddittorie, il consueto valzer interpretativo e naturalmente le resistenze politiche, il processo si è arenato.

Giulio Tremonti, nel 2010, fece scrivere, nero su bianco, in una manovra finanziaria, che fino a 30mila abitanti non si sarebbero potute costituire società partecipate, con l’obbligo per i Comuni cedere quelle possedute entro il 31 dicembre. Anche in questo caso, la norma è stata corretta, interpretata e di proroga in deroga la sua portata è stata radicalmente snaturata. A confermare la dubbia utilità e la strumentalità clientelare di tante partecipate, vi è poi da rimarcare il fatto che, come evidenzia il Cerved nel suo recente rapporto, “in più della metà delle oltre 5 mila partecipate dei comuni, le persone che siedono nel Consiglio di Amministrazione sono più degli addetti”: si tratta addirittura di 2671 società e di queste ben 1213 non hanno addetti, ma solo amministratori! “Lì si annidano i maggiori sprechi, ma lì si concentra anche il potere reale del Pd, di quello non renziano ma anche di quello renziano”, ha detto recentemente Fabrizio Cicchitto.

Per questo sul terreno delle partecipate si vedrà davvero se la famosa rottamazione di Matteo Renzi, per ora evocata solo a parole, prenderà concretamente forma. Innanzitutto con la consegna, entro il 31 luglio, di quel “[…] programma di razionalizzazione delle aziende speciali, delle istituzioni e delle società direttamente o indirettamente controllate dalle amministrazioni locali”, di cui le norme istitutive del commissariato alla spending review fa espressa menzione.

@albcrepaldi

Articolo Precedente

Il Movimento Cinque Stelle si prepari a governare

next
Articolo Successivo

Farmaci: trasformiamoli da costo in risorsa per il Servizio Sanitario

next