Da qualche parte verso la fine del terzo capitolo di un romanzo di Nadine Gordimer, la protagonista Liz, vedova di un attivista anti apartheid morto suicida, si chiede perché i coraggiosi siano obbligati a diventare folli. Il libro s’intitola Il mondo tardoborghese e il caso ha voluto che stessi leggendo quel passo subito prima di un incontro che Jung, credo, non avrebbe esitato a definire sincronico. All’epoca vivevo a Torino e frequentavo la Scuola Holden, un posto dove si parla di narrazione in tutte le sue forme. Stavo leggendo seduto al mio posto, circondato da compagni e colleghi, quando terminai quel capitolo. Proprio mentre il docente entrava in aula per tenere la sua prima lezione. Era da poco iniziato il 2001 e il docente si chiamava Erri De Luca. A quel tempo, a me e alla mia ignoranza quel nome non diceva molto.

Stranamente, come prima cosa De Luca ci parlò della situazione in Bosnia, del bombardamento aereo di Belgrado e della decisione del governo italiano di partecipare alle operazioni di guerra che si erano svolte soltanto un anno e mezzo prima. “Cosa avrebbe dovuto fare, in quei giorni, uno scrittore?”, ci chiese. “Voi, al posto mio, come vi sareste comportati?”. Noi, che forse ci aspettavamo una semplice lezione di scrittura, perlopiù facemmo spallucce. Ma alla sua insistenza azzardammo un facile “ne avremmo scritto”. Lui scosse la testa e disse: “No, non credo. Avreste fatto come me. Sareste andati lì, sotto le bombe. Vi sareste fatti cittadini di Belgrado. Solo dopo aver fatto così, avreste potuto scriverne”. È a quel punto ho pensato che Liz aveva proprio ragione. I coraggiosi sono obbligati a diventare folli. O forse era il contrario?

Quando ieri ho saputo della morte di Nadine Gordimer, subito quest’episodio m’è tornato alla mente. E mi sono fermato a pensarci un po’ su. È uno strano silenzio, quello che senti crescerti dentro quando muore uno scrittore che hai amato. Io ho provato a colmarlo andando a rileggere alcune vecchie interviste della scrittrice sudafricana. In una di queste le chiesero perché mai, a dispetto della censura che ne vietava la pubblicazione, nelle sue prime opere si fosse tanto ostinata a raccontare il dolore del suo paese dilaniato dall’apartheid. Rispose: “Come avrebbe potuto essere altrimenti?”. In un’altra, parlando dei temi affrontati nei romanzi successivi, chiarì che però non poteva certo limitarsi a “deprecare solo l’apartheid quando l’ingiustizia umana è ovunque”. Perciò si è battuta anche per i malati di Aids, per la durissima condizione degli operai nel suo paese e, facendosi nemici potenti, contro la corruzione del Sud Africa post-apartheid. Insomma, anche lei era una di quelli che si vanno a ficcare sotto le bombe insieme ai bombardati.

In fondo è naturale, mi sono detto. Il meccanismo di qualsiasi narrazione è necessariamente innescato da un qualche tipo di conflitto e la lotta tra opposte ragioni (o torti) è il motore che spinge gli scrittori a scrivere e i lettori a leggere. E ovunque ci siano oppressori e oppressi, state ben certi che scrittori e scrittrici prenderanno immancabilmente le parti di questi ultimi. Non si tratta di sensibilità o di bellezza d’animo. È che il dolore può essere compreso e raccontato solo da chi lo prova. “Colpisci te stesso, prima, per capire il dolore che daresti”, recita un proverbio orientale. Un dolore che la scrittrice premio Nobel nel 1991 ha saputo raccontare in modo incredibilmente efficace, dando vita a personaggi ordinari ma complessi, a tratti ambigui, animati da grandi ideali ma attraversati da tensioni etiche in perenne conflitto con le seduzioni del conformismo, dall’anima sempre lacerata e divisa in due, proprio come la terra in cui vivono. E mai una volta che dia l’impressione di giudicarli, nel bene o nel male. Si limita a dar corso alla storia e a farceli vivere dentro. Questo in sé non impressiona. È ciò che ogni bravo scrittore sa fare e fa. Ma va tenuto presente per comprendere il punto a cui sto arrivando, che poi è il motivo che mi ha spinto a scrivere questo articolo. E il punto riguarda Nelson Mandela.

Si tratta di un’assonanza. Me ne accorsi leggendo l’articolo commemorativo che la stessa Gordimer scrisse nel dicembre del 2013 sul New Yorker in occasione della morte dell’ex presidente del Sud Africa e suo caro amico. Mi colpì il ritratto che ne aveva fatto. Di un uomo risoluto, capace di far ricorso, se necessario, anche alla forza e alla violenza, ma incapace di giudicare o serbare rancore nei confronti dei suoi stessi aguzzini. In qualche modo, anche Mandela si limitava a dar corso alla Storia (stavolta con la esse maiuscola) e a lasciarci vivere le persone dentro, senza giudicarle. In qualche modo, anche lui era andato a ficcarsi sotto la pioggia di bombe per riuscire a raccontare la sua visione di un Sud Africa finalmente libero e giusto. In qualche modo, anche lui era un narratore e questo, ai miei occhi, spiegava la strana amicizia che aveva legato due sudafricani tanto diversi come Nadine Gordimer e Nelson Mandela. La prima, come ogni grande scrittore, ha scritto la storia del dolore del mondo; il secondo, come ogni grande politico rivoluzionario, ha scritto la Storia.

“La Storia della letteratura”, scrisse Paul Valéry nel 1938, “non dovrebbe essere la storia degli autori ma la Storia dello Spirito come produttore di letteratura”; similmente, un secolo prima Ralph Waldo Emerson commentò che, per come la vedeva lui, tutti i libri del mondo erano opera di un’unica persona onnisciente; Walter Benjamin sostenne invece che la voce del vero narratore è quella che meno si distingue dalle innumerevoli voci che l’hanno preceduto, quasi che tutte le storie del mondo avessero sempre lo stesso, identico narratore; Borges ipotizzò l’esistenza di idee, “oggetti eterni” che entrano gradualmente nel mondo sotto forma di manufatti o di narrazioni, come nel caso del palazzo di Kublai Khan, che ne avviò la costruzione dopo averlo sognato, o l’omonimo poema di Coleridge, scritto sullo stesso palazzo dopo averlo ricevuto, come dettato, in sogno.

Ecco, forse Nadine Gordimer, proprio come Nelson Mandela, è stato il mezzo con cui una certa idea di umanità e di libertà si sta facendo gradatamente largo nella Storia. E mi soddisfa la circostanza, che Jung anche stavolta avrebbe detto sincronicità, per cui il mondo ha saputo della sua morte il 14 luglio, giorno in cui si ricorda la presa della Bastiglia, la prigione simbolo dell’oppressione e dell’ingiustizia, e l’inizio di quella rivoluzione il cui motto fu libertà, uguaglianza, fratellanza. E adesso che anche lei se n’è andata non ci resta che salutarla con affetto e, col cuore colmo di gratitudine, metterci alla ricerca della prossima incarnazione, magari in una forma ancora più raffinata, di quella stessa idea di umanità e di libertà. Suggerisco di iniziare a cercare là, dove cadono le bombe. Coraggio. Aguzziamo la vista.

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