Quando Ivan Scalfarotto appena eletto chiese di estendere l’assicurazione sanitaria per il suo compagno – assicurazione prevista per i/le parlamentari e per i/le loro partner – non ha preteso un trattamento diverso, ma che un diritto dovuto si applicasse alla sua situazione. Nessuno lo ha mai costretto a scegliere tra quello o una situazione intermedia. Nel gruppo dei/lle rappresentanti dello Stato, in cui con ogni evidenza ci si percepisce tra pari, è stato trattato come chiunque altro/a. E a ragione, per quello che mi riguarda: Scalfarotto è stato trattato come un deputato sposato ed eterosessuale, il parlamento ha riconosciuto piena dignità al suo legame ed è questo il principio su cui focalizzare la nostra attenzione.

Perché questa premessa? Ieri si è tenuto un incontro tra il Coordinamento Roma Pride e le altre realtà nazionali per capire quale strategia approntare in vista del ddl sulle unioni civili previsto per settembre. Il movimento ha decretato una serie di urgenze: la calendarizzazione della legge (come sottolineato da Imma Battaglia) innanzi tutto. E non sono mancati i bagni di realismo: la legge, così com’è, verrà molto probabilmente azzoppata su temi caldissimi, come ha fatto notare Lucia Caponera di Arcilesbica, quali la stepchild adoption e la reversibilità della pensione. Altri, come Vincenzo Branà di Arcigay Bologna, hanno posto l’accento sui limiti che la legge, così com’è, presenta: l’adozione del figlio del partner garantirebbe prevalentemente quelle coppie che hanno i soldi per poter ricorrere alla surrogacy, per non parlare del rischio di “repentine retromarce”, speculare ai piccoli passi e sostanziale azzoppamento di un effettivo miglioramento per le condizioni di vita delle persone LGBT, come già successo per la legge Mancino che invece di essere estesa per i crimini di omo-transfobia ha limitato gli effetti anche per i reati su razzismo e antisemitismo.

Andrea Maccarrone, presidente del circolo Mario Mieli di Roma, ha inoltre auspicato la massima unità del movimento rispetto non solo alla legge, ma all’impianto filosofico-giuridico che essa contiene. Perché una cosa è un pacchetto di provvedimenti, sui quali questa o quella realtà può riconoscersi – e questo potrebbe avere effetto disgregante per la gay community – un’altra è mantenere fermo il concetto della piena parità giuridica. E qui torniamo al punto di partenza. 

Il movimento LGBT, in altre parole, si trova di fronte a un bivio: quello di accettare qualsiasi compromesso o fare i conti con un senso di dignità che dovrebbe essere trattato in modo diverso rispetto a una qualsiasi questione sindacale. Perché la vita di un essere umano, soprattutto se appartenente a una minoranza discriminata, non dovrebbe essere messa sotto trattativa. Non su aspetti così intimi, privati e fragili, come la gestione di un sentimento, il progetto di vita conseguente, il suo riconoscimento, la tutela che gli si dovrebbe. Il movimento non ha ancora trovato una risposta, rispetto a questo interrogativo che si configura come lacerante. C’è la voglia di parlarsi, di interloquire con le istituzioni, di valutare cosa verrà effettivamente proposto. Per questa ragione si è deciso di riaggiornarsi a settembre.

Personalmente credo, come ho già detto in più occasioni, che una proposta che equipari al matrimonio le unioni di gay e lesbiche sia già il massimo grado di mediazione possibile. Al di sotto delle civil partnership, così come presentate nel ddl Cirinnà, ci sarebbe solo una sorta di apartheid giuridico che sancirebbe, per legge, la disparità di trattamento delle persone LGBT. Occorrerebbe interrogarsi, anche come singoli/e e non solo come movimento o comunità, se una legge che prevede “dependance” giuridiche esclusive ed escludenti apporti un effettivo miglioramento per le nostre condizioni di vita e, quindi, per la nostra dignità di esseri umani. Magari prendendo come punto di riferimento Scalfarotto, per una volta. Il quale ha fondato un’associazione di aziende gay-friendly, intitolata a Rosa Parks. Per chi non la conoscesse, una signora che si ribellò al segregazionismo americano, chiedendo e ottenendo di potersi sedere in autobus nei posti riservati ai bianchi. E attenzione: quegli stessi sedili. Non accontentandosi di un mezzo con un nome diverso, con meno fermate programmate e che l’avrebbe lasciata comunque più lontana rispetto a dove voleva arrivare. Ricordiamocelo sempre.

 

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